Due sentenze recentissime della Corte di Cassazione, la n. 9749/16 del 12 maggio e la n. 9904/2016 del 16 maggio, chiariscono le circostanze in cui il licenziamento è ritenuto legittimo a seguito di un controllo a distanza, materia trattata dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e riformata nel decreto legislativo n 151/15, cioè il “Jobs Act”.
Le due sentenze trattano circostanze diverse. La prima conferma il licenziamento di un lavoratore che ha utilizzato i permessi previsti dalla legge 104/92 per scopi diversi da quello concesso – assistenza alla suocera disabile – circostanza confermata da un investigatore privato assoldato dall’azienda. L’investigatore ha monitorato gli spostamenti del dipendente, pur rispettando i limiti della non invasione della dimora privata e soprattutto della privacy dell’interessato. Nel caso specifico, per ben cinque volte, il lavoratore ha utilizzato i permessi per scopi personali. La legge stabilisce che l’impiego di un investigatore privato deve essere volto alla prevenzione di illeciti da parte dei dipendenti mentre il suo utilizzo non è ammesso nel caso si volesse controllare la qualità e la durata della prestazione lavorativa.
La seconda sentenza è relativa al licenziamento di un lavoratore avvenuto in conseguenza di un controllo sull’orario di lavoro, eseguito a mezzo di badge elettronico. L’azienda ha diritto a controllare i propri dipendenti sempreché esista un accordo scritto con le rappresentanze sindacali. Mancando l’accordo i dati rilevati dai lettori di badge non possono essere acquisiti a giustificazione del licenziamento perché la quantificazione della prestazione lavorativa e, conseguentemente, la modalità di rilevazione, deve essere sempre concordata con i sindacati. Nel caso in esame, l’azienda aveva rilevato che l’inizio e la fine della prestazione lavorativa non coincidevano con le timbrature. Infatti, l’interessato aveva escogitato un sistema di timbratura concordato con tre colleghi; egli risultava arrivare in azienda con il primo degli altri tre e concludeva il proprio lavoro con l’ultimo dei tre, configurando così un tempo di lavoro superiore a quello effettivamente prestato. In mancanza di un accordo specifico sottoscritto con il sindacato, il magistrato ha ritenuto illegittimo il licenziamento, riammettendo il lavoratore in azienda.