Il fallimento del concordato salva-imprese

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Tra coloro che ne hanno approfittato ci sono marchi famosi come Richard Ginori, La Perla, Miss Sixty, Cesare Paciotti. Ma anche holding come Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone, l’imprenditore finito nei guai prima per i lavori nei porti turistici di Imperia e Fiumicino e poi per una presunta evasione da 145 milioni di euro, la Sopaf del finanziere milanese Giorgio Magnoni, sotto inchiesta per un buco di oltre 100 milioni, e Seat Pagine Gialle, su cui indaga la procura di Torino. Il nome tecnico è “concordato con riserva”, ma è stato subito ribattezzato “concordato in bianco”. E’ una procedura che consente alle aziende in crisi di ottenere dal giudice, con una semplice domanda, da due a sei mesi di immunità dalle aggressioni dei creditori per poter presentare al tribunale un piano di salvataggio. Pensata dal governo Monti nel 2012 per consentire alle imprese in difficoltà di rinegoziare i debiti e rimettersi in marcia, evitando il fallimento, si sta rivelando un boomerang. Che rischia di mettere in ginocchio i creditori e di agevolare più chi commette illeciti che gli imprenditori seriamente intenzionati a salvare le loro aziende. Si stima che finora siano oltre cinquemila le aziende che hanno fatto domanda (dati Cerved), l’equivalente del totale registrato nel quinquennio precedente. Un successo, verrebbe da dire. Non la pensa così il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che da mesi va ripetendo che il nuovo concordato è «un’anomalia assoluta». E anche il giudizio degli addetti ai lavori è fortemente negativo. Per il presidente del tribunale fallimentare di Milano Filippo Lamanna la riforma ideata dell’ex ministro Corrado Passera si sta rivelando un disastro. «C’è stato un pesante aggravio del lavoro», spiega, «senza che il numero dei fallimenti sia diminuito. E’ una riforma congegnata male, che non serve a niente. Doveva salvare le imprese salvabili, ma le aziende arrivano a presentare la domanda all’ultimo momento, quando ormai sono già decotte». Il problema, sottolinea Luisa De Renzis, membro del direttivo dell’Anm e giudice fallimentare a Roma, è che la legge «non distingue tra le imprese che potrebbero proseguire l’attività, accedendo al concordato in continuità, e quelle per le quali l’unica prospettiva è il concordato liquidatorio». In questo caso, prosegue, «allungare i tempi di pagamento dei debiti può essere letale. Tanti creditori sono a loro volta imprenditori. Si rischia l’effetto domino». Da qui le perplessità di Squinzi, che paventa fallimenti a catena. C’è anche un altro problema. La legge si presta ad abusi di ogni genere. La possibilità di bloccare i creditori con una semplice domanda, senza chiarire entità dei debiti, solvibilità, tempi di rientro, ha moltiplicato le scappatoie per i furbetti di turno. C’è chi ne approfitta per svuotare l’azienda e mettere al sicuro i beni residui, chi cede la parte ancora sana dell’impresa a prestanome per poi liquidare il resto e ripartire libero da debiti, chi usa il periodo di stand-by per mettersi al riparo da future grane giudiziarie. È il caso di un imprenditore romano che, di recente, ha utilizzato i 60 giorni di moratoria per far cancellare la sua azienda dal registro delle imprese, dichiarando alla camera di commercio di aver estinto tutti i debiti. Risultato: il debito con il fisco è tutt’ora in piedi, il fallimento della sua società non può più essere dichiarato e l’imprenditore eviterà l’accusa di bancarotta. «Tutti noi», commenta De Renzis, «abbiamo la sensazione, che diventa certezza se pendono istanze di fallimento, che lo strumento sia usato solo per prendere tempo». Al di là delle critiche, a sancire il fallimento del nuovo concordato “salva-imprese” sono i numeri. Basta vedere cosa è accaduto nei due principali tribunali fallimentari italiani, Milano e Roma. Nel capoluogo lombardo, dall’entrata in vigore a oggi sono state presentate 501 domande di concordato, 15 secondo il vecchio rito (di cui 13 ammesse), il resto in bianco. Ebbene, finora dei 486 concordati con riserva presentati quelli ammessi sono 117 (il 24%), quelli omologati (andati cioè a buon fine e attualmente in esecuzione) sono 17 (il 3,5%) e quelli chiusi 10 (il 2 per cento). «Il lavoro dei magistrati è decuplicato», sottolinea Lamanna, «per avere un risultato pari a meno di un concordato su tre. Si tratta del fallimento sostanziale della riforma». Un quadro ancora più fedele dei risultati ottenuti dal concordato prenotativo lo si può ricavare dall’analisi delle domande “in bianco” presentate nei primi dieci mesi di applicazione della riforma. Dal momento che il tempo massimo della moratoria è di sei mesi, i dati sui ricorsi presentati dall’11 settembre 2012 a giugno 2013 possono infatti essere considerati un indicatore attendibile. Qui il risultato migliora leggermente. Su 351 concordati “con riserva”, ne sono stati ammessi 123 (il 35%), di cui dieci chiusi (2,8%) e 17 omologati (4,8%), mentre i concordati non ammessi o revocati sono 212 (il 60,5 per cento). Un bottino piuttosto magro se si considera che molte delle domande ammesse, come nel caso della Sopaf, sono di tipo liquidatorio, servono cioè solo a soddisfare i creditori. A Roma i risultati sono addirittura peggiori. Dall’11 settembre 2012 al 31 dicembre scorso sono state presentate 311 domande, di cui 301 in bianco. Le domande “con riserva” ammesse sono state 48 (il 15,9%), di cui solo sei omologate (il 2%), mentre le domande respinte sono state 170 (56,5%), di cui 96 già trasformate in fallimenti. Tra i concordati ammessi c’è quello di Acqua Marcia, tra i respinti quello di Blue Panorama. «La legge non sta dando buoni risultati», commenta la presente del tribunale fallimentare Giovanna Russo, «la sensazione è che la maggior parte delle aziende che presentano la domanda prenotativa lo facciano per prendere tempo ed evitare le azioni esecutive». Anche l’atteso effetto di riduzione dei fallimenti non c’è stato. Il “salva-imprese” ha sortito un effetto tappo nei primi mesi, ma poi il numero dei fallimenti ha ripreso a crescere. Nel 2011 a Roma ne sono stati dichiarati 708. Nel 2012 erano 497 fino all’11 settembre. Negli ultimi quattro mesi, grazie alle domande in bianco, sono scesi a 288, ma nel 2013 sono aumentati di nuovo: 508 nel primo semestre, più altri 458 nel secondo. Totale: 966, ben oltre i 708 di due anni prima. «Il concordato così com’è», conferma Roberto Fontana, fino a tre mesi fa giudice della fallimentare di Milano e ora pm a Piacenza, «non funziona, serve solo a far proliferare i compensi destinati ai professionisti che lo propongono, agli attestatori, ai commissari e ai liquidatori. Occorre distinguere a priori tra concordati che possono portare all’effettivo risanamento dell’impresa da quelli destinati alla liquidazione. Il concordato va ammesso solo nel primo caso. Non ha senso ricorrere al concordato, che costa cinque volte di più di un fallimento e che nel 90% dei casi garantisce ai creditori appena il 10% di quanto loro dovuto, per arrivare allo stesso risultato: la liquidazione dei beni». Il problema, prosegue il magistrato, è che in Italia «il concordato viene chiesto 3-4 anni dopo l’inizio della crisi, quando l’impresa è già in dissesto. Bisogna introdurre anche da noi sistemi di allerta che facciano emergere subito le situazioni di insolvenza. In Francia appena un’azienda ha 30 mila euro di contributi previdenziali non pagati o un arretrato Iva di sei mesi parte subito la segnalazione al tribunal de commerce. Da noi, quando c’è insolvenza, le prime ad accorgersene sono le banche. Che, di solito, pensano anzitutto a “sistemare” i propri crediti, lasciando agli altri creditori un cumulo di macerie». In questa situazione, conclude Fontana, «il concordato in bianco è la ciliegina sulla torta». Anche i correttivi introdotti dal governo Letta per ridurre i possibili abusi, secondo il magistrato, sono «un piccolo palliativo». Da agosto 2013 per ottenere il concordato prenotativo l’imprenditore deve depositare, con la domanda, anche gli ultimi tre bilanci e l’elenco dei creditori. La moratoria “automatica” è stata ridotta di fatto a 60 giorni se già pende un’istanza di fallimento. Inoltre i tribunali possono nominare subito un commissario per vigilare sull’operato dell’impresa e l’imprenditore è tenuto a consegnare ogni mese una relazione sulla situazione finanziaria dell’azienda. L’unica cosa che è cambiata, commenta la presidente del tribunale di Roma Giovanna Russo, «è che con il commissario giudiziale è aumentata la percentuale di inammissibilità delle domande». – See more at: http://www.pagina99.it/news/societa/3809/Il-fallimento-del-concordato-salva-imprese.html#sthash.SnMifdP8.rgvK45MS.dpuf

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