Il banchiere centrale italiano che ci penalizza da 3 anni

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C’è un banchiere centrale europeo che da tre anni sta emettendo norme che hanno indotto gli istituti finanziari italiani a scelte draconiane con ripercussioni drammatiche su cittadini e imprese. L’ironia è che non è tedesco. O olandese. No, è di nazionalità italiana e proviene dalla nostra banca centrale, quindi dovrebbe essere consapevole dell’impatto che le sue scelte stanno avendo sulle nostre banche e ancor più sulle nostre imprese. Stiamo parlando di Andrea Enria, il presidente dell’Eba, la European banking authority, organo di vigilanza bancaria dell’area euro.

Poco più di due anni fa, praticamente dalla sera alla mattina, l’Eba ha imposto alle banche dell’area euro di più che raddoppiare il proprio patrimonio liquido mettendo in moto un meccanismo che ha strozzato l’erogazione del credito nel nostro Paese come mai prima nella storia (si veda il box qui sotto).

Adesso l’authority presieduta da Andrea Enria, che ha il compito di emanare i principi-guida della futura vigilanza europea, sta per dare una stretta ulteriore che non solo rischia di mettere in grave difficoltà molte banche italiane ma anche di chiudere definitivamente i rubinetti del credito alle imprese. E ancora una volta con pochissimo preavviso.

«È roba da allarme rosso», commenta un banchiere che chiede l’anonimato. L’impatto potenzialmente più devastante lo avranno due regole che rischiano di aumentare drammaticamente il numero di clienti in default, congelando l’erogazione del credito e portando l’economia reale del Paese alla paralisi. La regola numero 179 di fatto impedisce a un istituto di intervenire a supporto di un cliente in difficoltà più di una singola volta. Altrimenti lo dovrà automaticamente classificare come non-performing, quindi dichiarare il suo credito in default e prevedere nuovi accantonamenti.

Altrettanto devastante è la regola 155 che introduce norme egualmente inflessibili sugli sconfinamenti dei fidi. Fino a oggi lo sconfinamento per oltre 90 giorni generava il default solo se superava una certa soglia, detta «soglia di materialità», che è pari al 5% del totale delle linee di credito del cliente. Da adesso invece un qualsiasi sconfinamento oltre i 90 giorni, anche se di un singolo euro, nel caso riguardi una linea di credito uguale o superiore al 20% del totale degli affidamenti, costringerà la banca a dichiararlo in default su tutte le sue linee di credito. Insieme, queste due misure hanno il potenziale per fare scempio dei bilanci delle banche e conseguentemente spingerle a un’ulteriore stretta creditizia.

Ma come può essere possibile che in una congiuntura economica in cui si sente disperatamente il bisogno di maggior offerta di stimoli finanziari (stile Bernanke), l’autorità europea stia di fatto al

imentando un’ulteriore contrazione economica su tutto il continente? «Enria sembra non rendersi conto o preoccuparsi delle ripercussioni delle sue misure sul nostro Paese, la Banca d’Italia e il governo sono troppo deboli – e hanno troppe responsabilità passate – per far valere le ragioni italiane a Francoforte o Bruxelles, e l’Europa “forte” non ha né l’interesse immediato né la lungimiranza per accoglierle», risponde il solito banchiere.

Analizziamo punto per punto. Cominciando da Enria: pur provenendo dalla nostra banca centrale, il presidente dell’Eba è un Marx più che un Lenin, ha cioè studiato i problemi ma non li ha mai affrontati sul campo lavorando con clienti.

Per quel che riguarda poi le grandissime responsabilità dei banchieri e le inadaguatezze della vigilanza passata, a renderle evidenti sono casi come quello del Monte dei Paschi di Siena o di Carige. Oppure quello meno noto della Banca delle Marche, dove per anni gli amministratori hanno erogato crediti insensati senza che fosse mai presa alcuna contromisura di vigilanza. Finché non è scoppiato il bubbone e l’istituto è stato costretto da Banca d’Italia a portare alla luce svalutazioni su crediti deteriorati per 1.041 milioni nel bilancio annuale del 2012 e altri 500 e rotti in quello semestrale del 2013.

«È indubbio che in Italia, per via anche delle commistioni con il mondo politico ed economico locale e nazionale, si sono fatti più rattoppi ex post che vigilanza. Ben venga quindi la vigilianza di Francoforte», continua il nostro interlocutore. «Ma qui non si stanno creando le premesse per una vigilanza più severa e distaccata. Si stanno introducendo meccanicamente regole che penalizzano i crediti e di fatto incoraggiano le banche a fare ancor di più quello di cui tutti le accusano: comprare titoli di Stato». Al Sole 24 Ore risulta che Banca d’Italia abbia cercato di porre qualche resistenza, ma non ha avuto la forza per farsi ascoltare. Il governo è stato invece assente.

Ma le “raccomandazioni” restrittive dell’Eba valgono per tutti, non solo per l’Italia. Come mai dunque gli altri Paesi tacciono? La ragione principale è che l’impatto di queste regole è diverso a seconda dal contesto. E si fa sentire di più nella fascia sud dell’area euro, quella più debole sia economicamente sia politicamente a cui appartiene l’Italia.
«Con clienti considerati buoni nel medio-lungo termine ma in temporanea difficoltà, in Italia è nella normalità rinegoziare linee di credito due, tre anche quattro volte. Così come è frequente lo sconfinamento oltre i 90 giorni, soprattutto in questo momento con le amministrazioni pubbliche che non pagano», ci spiega il banchiere.

«In Paesi come la Germania questo invece è sempre stato molto raro, indipendentemente dallo stato dell’economia che è certamente migliore. In Italia gli affidamenti sono in parte significativa a revoca, e cioè senza scadenza, mentre in Germania, e nei Paesi nord europei in generale, c’è sempre una scadenza. E le scadenze sono rispettate anche per norma sociale. Se non lo fai diventi un paria». Insomma, siamo davanti a una nuova potenziale tempesta perfetta: chi emana le regole è troppo rigido, chi ne subisce le conseguenze più devastanti non conta e chi conta, non essendo danneggiato, pensa solo ai propri interessi immediati.

«Qui parliamo di misure indiscriminate che non ti aiutano a fare una vigilanza sana, cioè a distinguere chi fa bene e chi fa male. Si introducono automatismi che costuiscono di fatto una forma di rinuncia alla vigilanza», si infervora il banchiere. «È vero che in Italia la vigilanza non è stata fatta in modo stringente, ma siccome abbiamo finora dato prova di minore affidabilità possiamo adesso accettare il suicidio finanziario ed economico?».

Dal dicembre scorso, attraverso le banche centrali nazionali, la Bce sta acquisendo dati sul portafoglio credito classificati in base a questi nuovi criteri. E a metà marzo partiranno ispezioni congiunte Banca d’Italia-Bce per la cosiddetta Asset Quality Review, o Aqr, cioè una due diligence intesa ad analizzare il valore degli attivi nei bilanci. E per chi non dovesse rispettare i coefficienti patrimoniali richiesti sulla base delle nuove classificazioni si prospetteranno pesanti provvedimenti.

Il problema è che, da quel che risulta al Sole 24 Ore, le banche italiane non hanno affatto rivisto in modo stringente la classificazione dei loro crediti in base ai nuovi criteri di valutazione. «Le nostre banche non hanno metodi di flagging, o segnalazione, delle caratteristiche volute da Enria: i sistemi italiani non rilevano gli sconfinamenti sotto la soglia di materialità, né le concessioni ripetute. Quindi non è affatto facile riclassificare gli impieghi con quelle caratteristiche. E non so quanto e come questo sia stato fatto».

Ciò vuol dire che nel giro di un paio di mesi, quando gli ispettori completeranno la loro due diligence, alcune banche potrebbero essere costrette a riclassificare come non-performing molti crediti ritenuti in bonis. Con conseguente esigenza di ulteriori aumenti degli accantonamenti. Insomma, agli sbagli e ai danni del passato si rischia di rispondere con altri sbagli che potrebbero causare conseguenze ancora peggiori. E ancora una volta, questi non saranno circoscritti alle banche ma all’intero mondo produttivo italiano.

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