Il credit crunch costa 46 miliardi

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Il credit crunch è costato 46 miliardi di euro di prestiti in meno a imprese, famiglie e pubblica amministrazione italiane. Il calo maggiore è stato per le aziende, che hanno ricevuto 29,6 miliardi in meno. Sono questi i dati pubblicati ieri da Unimpresa, che ha rielaborato le statistiche di Bankitalia confrontando le cifre di marzo 2013 con quelle di un anno prima. «Nonostante le rassicurazioni delle banche centrali, che hanno indicato un miglioramento a inizio 2013 del mercato del credito, continuiamo a registrare una pesante riduzione dei finanziamenti», ha osservato il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. «I rubinetti chiusi, anzi ormai letteralmente serrati, sono il peggior segnale della recessione e allo stesso tempo aumentano la preoccupazione circa le speranze di ripresa».

In valore assoluto i prestiti alle imprese sono scesi da circa 885 a 855 miliardi (-3,4%).

La contrazione maggiore è stata per i finanziamenti fino a un anno, scesi del 3,5%, per un importo di quasi 12 miliardi. Significativa anche la riduzione del credito oltre cinque anni (-3,4%, ovvero quasi 14 miliardi in meno), che ha risentito delle difficoltà delle banche di garantire prestiti a lungo termine, ma anche della più bassa domanda per investimenti da parte delle imprese. Ha resistito meglio invece il credito tra uno e cinque anni.

Per le imprese i prestiti sono diventati difficili non solo in termini di quantità, ma anche di prezzo. I tassi, nonostante le recenti lievi flessioni, si mantengono il 3-4% oltre i livelli pagati dagli imprenditori in Germania. Il problema diventa ancora più grave per le piccole aziende, per le quali peraltro è praticamente impossibile finanziarsi sui mercati. Se a tutto questo si aggiunge anche la difficoltà a essere pagati dalla pubblica amministrazione, allora si capisce quanto difficile possa diventare la gestione della liquidità per un’impresa italiana. La Bce è da tempo alla ricerca di nuove metodologie per facilitare il credito alle pmi nel Sud Europa, ma il tentativo si scontra con ostacoli tecnici e l’opposizione della Germania all’assunzione di rischi eccessivi da parte dell’Eurotower.

In molti speravano in un’inversione di tendenza nel credito dopo le due aste Ltro a tre anni e dopo l’annuncio del piano Omt che ha frenato la corsa dello spread. Le mosse della Bce hanno evitato il disastro, ma non sono state sufficienti per riattivare un circolo virtuoso nel credito. Le ragioni sono molteplici. Le banche italiane prestano ancora ai privati più di quanto raccolgono: perciò stanno facendo il possibile per ridurre lo squilibrio, che è ancora di circa 150 miliardi, e che prima della crisi era colmato dagli investitori esteri. Ma al di là dei problemi sulla raccolta, le banche hanno poca propensione a prestare, a causa del più elevato rischio (e dispendio di capitale) dei prestiti alle imprese rispetto ad altri investimenti come quelli su titoli di Stato. Questo contribuisce al successo delle aste di Bot e Btp. Infine va ricordato, e lo ha fatto spesso anche Mario Draghi, che nei momenti di crisi la domanda di prestiti da parte delle aziende è inferiore e di minore qualità, poiché è più legata a esigenze di cassa e meno a investimenti.

Se la situazione è particolarmente difficile per le imprese, non è molto migliore per le famiglie, che hanno ricevuto a marzo 8,6 miliardi in meno rispetto a un anno prima. I dati elaborati da Unimpresa hanno mostrato un netto calo del credito al consumo, pari a 3,7 miliardi (-6%). Per i mutui la contrazione è simile in valore assoluto (-3 miliardi), ma meno preoccupante in termini percentuali (-0,8%). Infine, per quanto riguarda la pubblica amministrazione, il credito fino a un anno (+14 miliardi) ha compensato in parte la flessione sulle scadenze oltre 5 anni (-17 miliardi). Finché il credito non ripartirà, sarà difficile la ripresa. «L’uscita dalla recessione dipende dalla capacità di far ripartire il motore dei finanziamenti e un piano serio per una drastica riduzione del carico fiscale sull’economia», ha osservato Longobardi. «Il governo di Enrico Letta, invece di promettere nuova occupazione, che non si fa per decreto, dovrebbe partire proprio dalle tasse e dalla liquidità».

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