Il sodalizio tra due banchieri antagonisti

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Cronache di un tempo che fu, che in parte è finito e che non sarà più. Nelle due ore di dibattito, in occasione della presentazione del libro-intervista di Massimo Mucchetti a Cesare Geronzi, è emerso soprattutto quanto sia stato forte il sodalizio tra i due banchieri di sistema – Geronzi e Giovanni Bazoli – che Carlo De Benedetti preferisce definire “powerbroker”.

Geronzi ha tenuto a ricordare che lui, terminata la carriera da assicuratore alla presidenza di Generali, banchiere lo è stato davvero. E rivoluzionario, rivendicando il coraggio di aver contribuito a scardinare il sistema delle partecipazioni pubbliche nel credito, assumendo «il compito di dare ordine a un mondo in declino». Un’avventura iniziata nel 1988 con la prima fusione tra il Banco di Santo Spirito e il dissestato Credito molisano, seguita l’anno successivo dalle nozze con la Cassa di risparmio di Roma, e poi via via il Mediocredito centrale con il Banco di Sicilia e la Bipop. A furia di «salvare salvataggi» Geronzi ha finito per essere salvato con un’operazione, l’abbraccio con UniCredit, che valutava Capitalia 28mila miliardi di vecchie lire: un «capolavoro» ha ironizzato De Benedetti.

Ma neppure Bazoli nella definizione di banchiere di sistema si ritrova. «Che significa? Sistema di relazioni?»: le relazioni tra le persone, secondo il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa-Sanpaolo, sono il sale delle operazioni economiche meglio riuscite. Anche Bazoli ha una lunga storia di aggregatore alle spalle, partendo dalla disastrata situazione dell’Ambrosiano del dopo Calvi fino a costruire la prima banca della Penisola.

Stili personali molto diversi per il banchiere cattolico romano e il banchiere cattolico lombardo-“manzoniano”, che però hanno seguito un percorso simile fino a intrecciarsi in una diarchia così pervasiva da suscitare la reazione di chi aspirava a «interpretare il nuovo». A ben guardare i due banchieri sono stati anche idealmente antagonisti quando, ciascuno a modo suo e passandosi di fatto il testimone, hanno cercato – forse anche inconsapevolmente – di riempire il vuoto lasciato da Enrico Cuccia nella ragnatela di potere che faceva capo a Mediobanca. Ed entrambi alla fine “respinti” da quel sistema che non era il loro. Bazoli che, quando ancora il padrone dei padroni era in vita, era stato “costretto” da Cuccia e dal suo delfino Vincenzo Maranghi a uscire dal capitale dell’istituto. Per quanto il banchiere bresciano ha raccontato ieri, a causa di un’incomprensione sul piano di integrazione tra il Nuovo Banco Ambrosiano e la Comit, che lo stesso Cuccia, «scegliendo un antico avversario», aveva deciso di affidargli. Un’incomprensione, dovuta all’«effetto di consulenze non conosciute fino in fondo, nè fino in fondo comprese» da Bazoli, che però ruppero il rapporto speciale che si era venuto a creare con il fondatore di Mediobanca, il quale non lo “invitò” poi al suo funerale, riservato a pochi intimi. E Geronzi che, conclusa la missione Capitalia, approdò alla presidenza di Mediobanca, succedendo a Gabriele Galateri, fino al passo falso di Generali. Dove determinante per le sue dimissioni fu proprio la presa di posizione della terza generazione di Piazzetta Cuccia.

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