La riforma delle BCC
Nessuno tocca le Bcc (ci ha già pensato Visco)

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Invio queste riflessioni sul tema della riforma delle BCC, a margine delle puntuali considerazioni svolte dal dottor Corsini del quale ho apprezzato il valore e il rigore professionale di ispettore di Banca d’Italia allorquando, già in quella veste, nel corso di alcuni nostri incontri tecnici, tratteggiava anche il futuro di queste banche, qual è venuto poi delineandosi.

La mia, dicevo, è oggi una testimonianza da osservatore esterno e quindi senza suggestioni ma che ha attraversato la storia delle Casse Rurali ed Artigiane per quasi 30 anni, iniziando dai primi anni ’80, quando ancora si facevano chiamare Movimento del credito cooperativo, i cui perni erano rappresentati dalle Federazioni locali, per l’assistenza tecnica alle Associate (chiamate anche Consorelle) e da ICCREA (la banca delle CRA).

Ho vissuto nelle fibre tutte le più importanti vicende che hanno scosso e scritto la storia della Cooperazione di credito, specie in Toscana, e in particolare lo stravolgimento istituzionale, di cui oggi nessuno parla più, rappresentato dal passaggio dalla legge bancaria di cui al R.D.L. 12 marzo 1936 n° 375 al Testo Unico Bancario adottato con D.Lgs. 1 settembre 1993 n° 385.

Si trattò di una rivoluzione copernicana, tanto per continuare con i retrogusti alla Newton (con un pizzico di Battiato) preparati in salsa Hegel dal nostro Chef che ha confezionato la sua ricetta per andare preparati all’imbandito desco della riforma, ed evitare diete bulimiche prima e terapie anoressiche dopo. Sì, perché la riforma del 1993, ammettendo la c.d. despecializzazione temporale e operativa ha aperto all’abbuffata del  modello unico di “banca universale”.

E la migliore chiave di lettura è quella di ricordare, sia pur per sommi capi, il contesto normativo del 1936: una legislazione necessitata da accadimenti poi consegnati alla storia (ricordarsi della circolarità della storia), che sanciva sostanzialmente:

  1. il principio della specializzazione temporale e territoriale del credito, secondo la sua destinazione e la sua natura distinguendo tra banche vocate al credito finanziario e al credito commerciale; banche di credito ordinario che dovevano gestire il credito a breve (entro 18 mesi) e istituti di credito che dovevano gestire il medio-lungo termine (oltre i 18 mesi);
  2. il c.d. pluralismo istituzionale, in base al quale le banche e anche un numero ristretto di istituti di credito speciale, venivano suddivisi in pubblico e privato;
  3. il principio della separatezza tra banca e industria”, con l’introduzione del divieto dei rapporti di partecipazione azionaria delle banche nelle imprese e viceversa, al fine di evitare commistioni pericolose fra attività imprenditoriali diverse da quelle bancarie e finanziarie e vere e proprie attività bancarie ed evitare che soggetti facenti capo ad attività imprenditoriali potessero disporre di una banca da usare in modo distorto rispetto al compito della “banca istituzione”, come ritenuta allora.

A corollario della norma base, il legislatore promulgò altre discipline primarie destinate alle Casse di risparmio e alle Banche Popolari (tanto per rimanere nell’attualità). Anche le Casse Rurali ed Artigiane ebbero nel 1937 il loro testo unico, dettato non senza ragioni, con una visione se si vuole “protezionistica”, tant’è che all’art.21 limitava l’attività di ciascuna “Cassa rurale ed artigiana” al territorio del comune nel quale aveva sede potendo tuttavia essere autorizzata ad operare in uno o più comuni limitrofi, sempreché ivi non fosse presente altra “Cassa rurale ed artigiana” o questa fosse insufficiente ai bisogni locali; e all’art. 31 disponeva la fusione allorquando in uno stesso comune fossero in funzione più di una “Cassa rurale ed artigiana”.

Questa è stata la regolamentazione in vigore fino al 1993 e mi è sempre echeggiata l’affermazione lapidaria di Piero Barucci, già presidente dell’ABI e del Monte de Paschi che ospite in veste di Ministro del Tesoro ad un convegno organizzato dalla Federazione Toscana alla vigilia dell’entrata in vigore di quella (improvvida) riforma, nel suo saluto ammonì a non “scimmiottare” le banche più grosse e a conservare la “peculiarità delle origini” perché diversamente sarebbe stata la fine delle Casse Rurali ed Artigiane (sic!).

Con l’abrogazione delle fascistissime norme ci siamo così spalancati al liberalismo dell’Europa e al liberismo della globalizzazione; anche le BCC si sono sentite maggiorenni e desiderose di aprirsi e di misurarsi con tutte le esperienze della nuova industria bancaria purché in ottica di una sana e prudente gestione ma nel rispetto di una congerie di disposizioni amministrative e di controllo, tra norme sovranazionali e regolamentari – al cui confronto quelle del ventennio erano pannicelli caldi – e che inducono a chiedersi, in cotanto strame: quis custodiet custodies ?

Ciò nonostante, questa evoluzione di contesto ha assistito anche al ritorno di argini con risibili limitazioni, alle partecipazioni incrociate tra banca industria (ormai non più banca istituzione) e restante mondo imprenditoriale, introducendo il divieto di interlocking di cui all’art. 36 D.L. 201/2011, per arrivare poi, in tempi attuali, ad importare il bail in che, almeno per magra consolazione, possiamo pronunciare alla genovese.

Nel frattempo il Movimento del credito cooperativo si è voluto anche autoreferenziare in Gruppo Bancario (Iccrea), dopo avere a lungo trascinato in discettazioni e molto investito in risorse, nel progetto di costituzione del gruppo paritetico cooperativo (cfr. art. 2545 septies cod. civ.) mai decollato, come sta a dimostrare le riforma appena sfornata.

E se non si è arrivati da nessuna parte lo si deve alle guerriglie sui sistemi informativi, alle schermaglie sulla rappresentatività nelle strutture centrali lasciando che i mediocri, ormai abbandonata la stazzonata casacca di ex cooperatori del credito perché assurti a nuovi banchieri con cravatta e doppio petto, rafforzassero la propria fortuna con il consenso asservito alla ragnatela di poteri già avviata nelle periferiche satrapie, intessendo apparentamenti nepotistici da scambiare poi anche con incarichi di amministrazione in società satellite del Gruppo, per consolidare, con l’autorevolezza della nuova visibilità, il ruolo proprio e dei loro sodali, e blindare il sistema diventato BCC con una classe dirigente sempre più simulacro di sè.

Non nascondo di avere sorriso con un misto di amarezza e di tristezza, quando Corsini ha evocato nel suo primo intervento la necessità e l’urgenza di affrontare la riforma con un approccio anche dello spirito, una sorta di fenomenologia (hegeliana), perché mi è ritornato vivido il ricordo di quando Paolo Viviani, conosciuto “tardivamente”, accettò di seguire i miei pressanti inviti per tentare di ricompattare tutte le BCC della Toscana e si recò per questo in Federazione dove non aveva più rimesso piede dopo la sua uscita, per incontrare il presidente e il direttore di allora.

La storia di questo piccolo mondo, se tutti i protagonisti di allora avessero mirato meno al consenso da cabotaggio e più al progetto imprenditoriale da mettere in campo, avrebbe avuto forse tutt’altra fortuna.

I fatti andarono nel senso meno auspicato ma occorre ricordarli per non ripetere gli stessi errori. E anche Viviani non potrà più essere d’aiuto.

Quanto a me, qualche anno dopo il Destino avrebbe serbato in sorte il coccio di vaso di terracotta con l’ostracismo; ho il rammarico di essere incorso in errori di valutazione ma non ho lasciato debiti di committenza; continuo perciò a conservare la sufficiente memoria storica di fatti e persone per poter affermare che questa o un altra riforma non interromperà il declino di una esperienza che viene da lontano e che si è voluto affrontare con vieti stilemi.

Corsini è persona troppo accorta e tecnicamente attrezzata per farsi sfuggire che all’elenco delle cose da fare c’è da aggiungere il nocchiere della buona navigazione, perché caso mai in passato ci fossero stati demiurghi – e il ricordo va a Renzo Zelari, la figura nobile che il Movimento, non solo toscano, ha espresso insieme a Marsili Libelli, ma che non si è mai considerato tale – occorre allontanare l’idea di quanti ancora oggi vorrebbero traghettare le BCC nella riforma, per continuare con le ubbie politiche e personali a occupare gli scranni dai quali hanno personificato, con una democrazia recitativa, la cooperazione di credito.

Ma le BCC hanno comunque al loro interno tanti esponenti e dirigenti che con preparazione e intelligenza sapranno affrontare le sfide e auguro loro di cuore, se questi gusci di banche, come li ha definiti il Nostro, potranno avere ancora un futuro, che sappiano riscoprire i principi che appartengono alla tradizione e alla cultura più autentica della “banchina”, recuperare il senso originale della solidarietà e della sussidiarietà – concetti questi disconosciuti dall’odierno legislatore – per avere finalmente il coraggio di una autentica nemesi tornando ad affermare, parafrasando Manzoni, che il buon senso esiste ma non deve stare nascosto per paura del senso comune.

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