Mps, dopo l’aumento i nuovi azionisti alla sfida del “polo aggregante”

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Il maggio bancario senese rammenta la frase più celebre del Risorgimento: allora si dovevano fare gli italiani, qui bisogna fare gli azionisti. Dopo un’assemblea rilassata come non ne vedevamo da anni e un voto plebiscitario (97%), la prima montagna, di 5 miliardi di euro che neanche zio Paperone, è virtualmente alle spalle. Il patrimonio del Monte dei Paschi, dissipato per acquisire l’Antonveneta, poi preso a prestito dal Tesoro per non fallire, tra giugno e luglio sarà versato dai soci. L’ad Fabrizio Viola prevede un inoptato “minimo”, a giorni il prospetto andrà in Consob, il consorzio garante c’è e fa i conti con 200 milioni di commissioni. La terza banca italiana continua il risanamento del piano 2014-2017, focalizzandosi sull’attività commerciale con meno rischi (altro che i derivati sulle cedole Btp), meno costi, bilancio. Questo risultato, ottenuto anche per la favorevolissima fase di mercato, non è piccolo, né scontato. E lo ha rivendicato con orgoglio davanti ai soci il presidente Alessandro Profumo, che a Siena di rospi ne ha ingoiati tanti: «Rimango sempre stupefatto dall’ingratitudine di queste assemblee: senza quel che abbiamo fatto in questi due anni Mps non esisterebbe più, e nemmeno la Fondazione. Mps non è più un problema per l’Italia, due anni fa nessuno avrebbe scommesso sul risanamento, torniamo una banca normale, con risultati non così male». Tuttavia le vicissitudini non sono

risolte. Presto verrà un’altra salita, e per superarla i manager dovranno sia riportare a usi di mercato un gruppo che per anni ha rischiato seriamente la nazionalizzazione o peggio, sia concorrere al posizionamento strategico di un gruppo che il nuovo patto a tre composto da Fintech, Fondazione Mps e Btg Pactual sogna «polo aggregante», ma viceversa potrebbe rivelarsi una preda. Il leader di Fintech (e ora primo socio di Mps con il 4,5%) David Martinez Guzman ha detto al Sole 24 Ore: «Ho fiducia nel management, saremo un polo aggregante. Il consolidamento è inevitabile: Mps potrebbe essere, in una seconda fase, elemento di attrazione attorno a cui far convergere asset italiani e poi magari europei». E Antonella Mansi, all’ultima assemblea da leader della Fondazione Mps che mantiene il 2,5%, ha aggiunto: «L’ente ha operato e opererà come soggetto aggregante, per individuare e mettere insieme investitori qualificati che agiscano, in ottica condivisa di medio-lungo termine, a sostegno del rilancio di Mps». Mansi, favorita dal rialzo delle quotazioni, ha effettivamente messo in sicurezza l’ente socio, ed è uscita con rapida eleganza da un impegno che in otto mesi avrebbe fatto venire i capelli grigi a molti; per questo la sua decisione di non candidarsi alla presidenza della Fondazione è rimpianta dai senesi, specie quelli piccoli. È presto per dire se nell’addio dell’imprenditrice grossetana per tornare all’azienda di famiglia c’è un futuro diverso. Più importante, per le cose del Monte, capire l’evoluzione del rapporto banca-ente, d’ora in poi modificato per sempre. Dopo un decennio siamese passato prima a far da burattinai a Mps, poi a subirne le mire di grandezza – e dopo otto mesi di gestione quasi commissariale, la Fondazione è chiamata a fare nuove scelte strategiche, per le quali abbisogna di una cultura di gestione e organizzativa adeguata. Un compito non facile, dato il passato, e nelle mani del direttore generale Enrico Granata, lui pure venuto dall’esterno e forse passeggero. Il bilancio 2013 di prossima approvazione sarà ancora misero, ma la situazione patrimoniale, venduto sui massimi il 30% di Mps, è più solida: si stimano, dopo il versamento dei 125 milioni di quota parte di aumento Mps, sui 450 milioni di liquidità da investire diversificando, 200 milioni di valore per il 2,5% della banca, e sul passivo circa 80 milioni di costi di funzionamento, 70 di spese istituzionali che andranno a dimezzarsi, e debiti per una quarantina di milioni da spalmare nel tempo. Una Fondazione formato ridotto, e che dovrà ridurre il raggio di azione, ma comunque viva e presente, specie se saprà sciogliere gli ultimi nodi dei dossier immobiliari (Sansedoni) e tecnologici (Siena Biotech). Se la Fondazione saprà ripartire – e ciò dipenderà anche dalla capacità di non far danni del Pd locale, chiamato il mese prossimo a fare nomine pesanti negli organi sociali dell’ente – la banca avrà trovato un socio importante, anche se ormai piccolo. Il restante 97,5% del capitale sarà in mani straniere: e tolte le quote di Fintech (4,5%), Btg Pactual (2%), il 3,23% di Blackrock, il 3,72% di Axa, il 2,53% di Jp Morgan, c’è un 81% tutto da scoprire. Proprio le prospettive di risanamento del Monte, la fitta rete nel Centro Italia e la forza di un marchio di 542 anni potrebbero allettare le grandi banche rivali (non le italiane, sembra), che molti osservatori vedono tornare a manovre di consolidamento da novembre in poi, dopo gli esiti dei test sugli attivi e l’avvio della vigilanza unica Bce. L’assaggio dei tempi nuovi si avrà a luglio, dopo l’aumento: chi sborsa i 5 miliardi vorrà contare, o almeno fare da sensale alle nozze di domani. Anche per questo sul mercato si rincorrono voci per cui il management sarebbe a caccia di soci fidati, per bilanciare il 9% del patto tra la Fondazione e i due soci sudamericani. «Ho letto le ipotesi di nascita di un contropatto. Il mio commento è quello di Fantozzi dopo la proiezione del cineforum », ha ironizzato Profumo, evitando citazioni volgari. L’attuale presidente, ai tempi in cui guidava Unicredit, aveva già cercato investitori stranieri, scontrandosi con le Fondazioni della banca milanese, che lo defenestrarono. La storia secolare del Monte comunque non è finita: «Mansi ha vinto la sfida e la situazione torna normale. Vedremo come si stabilizzerà», ha chiosato Giuseppe Guzzetti, decano dell’Acri, lieto per la mancata bancarotta dell’ente senese. Ma la parola chiave è vedremo. Nella foto qui sopra, la facciata di Palazzo Salimbeni, al numero 1 dell’omonima piazza nel centro storico di Siena, che dal 1866 è la sede centrale del Montepaschi

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