Mps, la Fondazione pronta a cedere la quota

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Cambia il modello di business e cambiano gli assetti azionari. La trasformazione di Banca Monte dei Paschi, in pieno svolgimento, non potrebbe essere più radicale. Almeno nelle premesse.
Se infatti il nuovo piano industriale, illustrato nei giorni scorsi dall’amministratore delegato Fabrizio Viola, punta a realizzare da qui al 2017 un’azienda bancaria più “leggera” e performante (meno sportelli, meno personale, maggior peso dell’home banking, 900 milioni di utile netto a fine periodo), la decisione di varare un aumento di capitale da 3 miliardi, che sarà sottoposta all’approvazione dell’assemblea straordinaria convocata il prossimo 27 dicembre, sta accelerando il riposizionamento dei vecchi azionisti.
Il primo partner storico a iniziare un disimpegno volontario è Unicoop Firenze, il colosso della grande distribuzione alimentare aderente alla Lega che, in base alle segnalazioni Consob, nelle ultime settimane ha ridotto dal 2,7 all’1,7% la partecipazione in Banca Mps. Una mossa che lascia presagire la non adesione alla manovra sul capitale, con la prospettiva dunque di diventare un azionista sempre più marginale (vedere altro servizio), proprio come la Fondazione Mps, anche se in questo caso non si tratta di una decisione spontanea.
L’Ente presieduto da Antonella Mansi, che ieri ha riunito la deputazione generale a Palazzo Sansedoni (senza trovare il nome per sostituire il vice presidente Giorgio Olivato), è impegnato a disinnescare la miccia della bomba a orologeria rappresentata dall’assemblea del 27, quando la Fondazione dovrà votare a favore o contro l’aumento di capitale. Nel primo caso, se non avrà ancora chiuso la propria esposizione debitoria (350 milioni), rischierà il fallimento per effetto della diluizione del titolo sul mercato. Nel secondo, come conseguenza dello stop che ha ancora la forza numerica d’imporre, metterebbe in seria difficoltà la banca di Rocca Salimbeni presieduta da Alessandro Profumo.
La Fondazione vuole vendere, per fare cassa e ripagare il debito. In questi giorni ha ceduto la parte del prestito fresh Mps da un miliardo, acquistato nel 2008: 490 milioni dell’epoca, che oggi hanno reso poco meno di 100 milioni, a testimoniare se mai ce ne fosse ancora bisogno il livello del disastro economico provocato dall’operazione Antonveneta, che nel 2008 appunto spinse il Monte a fare un aumento di capitale da 5 miliardi (sottoscritto per 3 miliardi dalla Fondazione) e a emettere il prestito fresh da un miliardo (che la Fondazione acquistò pro quota), sul quale sta indagando la magistratura.
I soldi incassati in queste ore da Palazzo Sansedoni andranno in piccola parte (una decina di milioni) a limare il debito, che dunque è sceso a 340 milioni, e in larga misura serviranno a mettere in sicurezza i conti 2014 della Fondazione. La quota del prestito fresh è finita sul mercato, in maniera anonima, ma nulla esclude che approfittando dell’imminente aumento di capitale e del momento di debolezza del titolo (ieri -0,8% a 0,18 euro) si stiano già muovendo mani forti, in grando di raccogliere l’eredità di chi per scelta o per necessità sta abbandonando il campo.
Ai collaboratori più stretti, la presidente Mansi negli ultimi giorni è apparsa determinata a trovare una soluzione soddisfacente prima dell’assemblea. In altre parole, la Fondazione prova a vendere una quota o l’intera partecipazione Mps in suo possesso, evitando così la roulette russa del voto favorevole o contrario all’aumento che finirebbe per danneggiare tutti. Il tempo è poco, appena una ventina di giorni, ma l’imprenditrice maremmana vice presidente nazionale di Confindustria prova a giocare le sue carte. In ogni caso, l’Ente di Palazzo Sansedoni deciderà l’atteggiamento da tenere soltanto alla vigilia dell’assemblea.
Con questo scenario, in attesa di conoscere quale posizione prenderà la famiglia Aleotti (4% di Mps) e con la sola Axa (3,7%) che ha già dichiarato l’intenzione di aderire all’aumento, appare inevitabile un terremoto negli equilibri di governo della terza banca del Paese. Il Monte può finire in mano a qualche nuovo investitore (fondi compresi), oppure diventare una pubblic company. Che probabilmente è la soluzione meno invisa agli attuali manager di Rocca Salimbeni. Certamente più gradita della prospettiva di una nazionalizzazione, che infatti l’aumento di capitale a inizio d’anno punta a scongiurare.

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