Mps, la versione di Viola sul «giallo» Alexandria

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Ieri al tribunale di Siena è andato in scena il j’accuse dell’ad del Monte dei paschi Fabrizio Viola; ma anche tutti i dubbi legati all’occultamento nei confronti della Banca d’Italia del mandate agreement, il contratto sottoscritto da Mps e Nomura.
Viola è stato chiamato a testimoniare contro gli ex vertici della banca senese, accusati di aver nascosto a Bankitalia il prodotto strutturato “Alexandria”, messo a punto con la banca giapponese nel 2009, che secondo gli inquirenti avrebbe causato 730 milioni di perdite in bilancio non emersi nella contabilità. L’ad non solo ieri ha sottolineato come il cosiddetto “mandate agreement” – servito a ristrutturare un vecchio contratto in rosso realizzato con la stessa banca giapponese – è stato occultato per 3 anni nella cassaforte dell’ex dg Antonio Vigni agli ispettori degli organismi di vigilanza, ma anche che la scoperta improvvisa di un buco di tale portata ha costretto ad aumentare la richiesta dei Monti bond, oggi pari a 4 miliardi. Prestito per cui oggi la banca senese dovrà fare rapidamente un aumento di capitale per evitare la nazionalizzazione e restituire il denaro come imposto dalle regole europee sulla concorrenza. «Abbiamo verificato con gli organismi di vigilanza il vero valore del contratto. Al momento della sottoscrizione aveva un valore negativo superiore ai 300 milioni. L’operazione era già partita in modo sfavorevole per Mps e anche per questo abbiamo dovuto alzare la richiesta dei Monti bond fino a 4 miliardi», ha detto l’ad del Monte.
Durante la sesta udienza del rito immediato per ostacolo alla vigilanza, parte della maxi inchiesta su Mps, si è arrivati dunque al cuore dell’accusa del filone investigativo relativo all’operazione “Alexandria”, che vede imputati l’ex presidente Giuseppe Mussari, l’ex dg Antonio Vigni e l’ex direttore finanziario Gianluca Baldassarri. Per i pm Antonio Nastasi, Aldo Natalini e Giuseppe Grosso tutti e tre hanno contribuito a celare il contratto a Bankitalia. Per la prima volta è stato presente in aula anche l’ex dg Vigni, oltre a Baldassarri, che ha sempre partecipato alle udienze.
«La struttura tecnica del Monte – ha detto Viola – dopo una mia richiesta esplicita sul contratto con Nomura, trovò il mandate agreement nella cassaforte di Vigni. C’era inizialmente un’indicazione nell’archivio, ma non si diceva in quale cassaforte. Riuscimmo solo il 10 ottobre 2012 a capire che si trattava di quella di Vigni. Accelerammo la valutazione dell’impatto economico, coinvolgendo gli uffici dell’audit interno. Poi abbiamo informato gli organismi di vigilanza». Quindi Viola ha spiegato ancora che nel contratto non c’era traccia del valore economico.«Per averne contezza abbiamo aspettato il chiarimento di Nomura, che ci ha indicato solo più tardi il costo implicito dell’operazione, pari a 220 milioni».
Oltre a Viola, ieri la procura senese ha chiamato a testimoniare anche il segretario della presidenza Valentino Fanti e l’ispettore di Bankitalia Giampaolo Scardone, mentre l’altro ispettore, Mauro Parascandolo, verrà ascoltato il 12 dicembre.
È proprio in quest’ultima parte processuale che sono emersi i dubbi sul mandate agreement, contratto che secondo la procura sarebbe stato nascosto perché, «i 6 punti del documento, in cui si indicano condizioni e connessioni con la precedente operazione, e quindi le successive perdite, non sono state fornite agli ispettori». Scardone ha in effetti sottolineato che a Bankitalia non è stata mai inviata copia del contratto, né fornita esplicita spiegazione. Tuttavia la difesa ha messo in evidenza una mail del 2009, in cui i vertici di Mps illustravano alla vigilanza gli ordinativi di 3 miliardi di Btp, collegati a un “mandate agreement”. Una nota troppo generica per gli inquirenti, che sottolineano come il reato di ostacolo alla vigilanza consista comunque nell’aver occultato il contratto; una prova di trasparenza, invece, per la difesa, che vede nella mail la dimostrazione di come non ci fosse volontà di occultare l’accordo con Nomura.

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