Prescrizione e rimesse ripristinatorie/solutorie: l’onere alla prova non può gravare sulla banca

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Tribunale Mantova, 15 ottobre 2014

GiustiziaSi sottopone all’attenzione dei lettori la sentenza resa dal Tribunale di Mantova nell’ambito di una causa seguita dallo studio, che vedeva coinvolti un istituto di credito ed una società sua correntista.

Quest’ultima, dopo aver intrattenuto per anni un rapporto di conto corrente con la banca, contestava le condizioni economiche applicate dalla convenuta e chiedeva la restituzione delle somme addebitate in conto, a suo dire, illegittimamente.

La decisione in oggetto è meritevole di segnalazione, con riguardo a due aspetti.

In primo luogo, come usualmente accade, la società attrice contestava le date contabili delle valute, poiché anticipate rispetto ai prelevamenti e posticipate rispetto ai versamenti. Il Giudice mantovano ha, però, respinto tale doglianza, osservando come la stessa fosse del tutto generica, poichè non individuava le poste attive e passive alle quali faceva riferimento, “apparendo necessaria invece la specificazione in concreto delle operazioni nelle quali le anticipazioni e posticipazioni sono state poste in essere”.

Secondariamente, il Tribunale ha accolto l’eccezione di prescrizione decennale sollevata dalla banca, con riguardo alla richiesta avversaria di ripetizione delle somme indebitamente trattenute.

Il Giudice Unico ha, infatti, evidenziato che le Sezioni Unite della Cassazione, con la nota sentenza n. 24418 del 2/12/2010, non si sono limitate ad inviduare la decorrenza del dies a quo della prescrizione dell’azione di ripetizione nella data di chiusura del conto, ma hanno precisato altresì che:

– l’azione di nullità è imprescrittibile e può essere esercitata a decorrere dalla singola annotazione in conto;

– l’azione di ripetizione dell’indebito è soggetta al termine di prescrizione ordinario, che decorre dalla data dell’avvenuto pagamento. Peraltro, si ha pagamento, non solo alla chiusura definitiva del rapporto, ma anche prima, allorché  vi siano versamenti con funzione solutoria (ossia eseguitia su un conto non affidato, con saldo passivo, ovvero oltre il limite di affidamwento).

Tanto precisato, il tribunale ha dichiarato che l’onere alla prova, con riguardo alla natura solutoria dei pagamenti, grava sul correntista che agisca in giudizio.

Infatti, “(…) seguendo l’impostazione attorea la banca sarebbe onerata della prova di assenza di tale ultima natura ripristinatoria o, in altre parole, dell’assenza di affidamenti o comunque di aperture di credito che la determinino. Tale soluzione è l’effetto stridente del criterio adottato dalla Suprema Corte che, pur astrattamente condivisibile, ha creato più problemi di quelli che era chiamata a risolvere in quanto, mutuando una distinzione delineata sin dal 1982 in tema di revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente effettuate dal fallito nel c.d. periodo sospetto, ha negato la revocabilità di tali rimesse nel caso le stesse avessero natura ripristinatoria della provvista (…). La traslazione del principio alla materia dell’indebito comporta un ribaltamento delle posizioni e del loro interesse probatorio sicché la banca, che in materia fallimentare aveva interesse a provare l’esistenza ed entità del fido onde contrastare la revocatoria delle rimesse, nel nostro caso ha invece interesse opposto, ossia che le rimesse avvengano in assenza di affidamenti e quindi, essendo allo scoperto, siano di natura solutoria.

Specularmente si pone il (ex) cliente, che vorrebbe invece la ripristinatorietà di tutte le rimesse onerando la controparte della prova della solutorietà. Così facendo si impone alla banca una prova che è del tutto negativa:

prova della solutorietà significa infatti prova prova dell’assenza di un fido, e il principio presenta già numerosi profili critici ponendosi in contrasto con il principio negativa non sunt probanda. In più, ove si debba adottare lo stesso rigore previsto in materia fallimentare, come sembrerebbe dal ragionamento delle Sezioni Unite, dovrebbe ritenersi necessaria una prova positiva del contratto di apertura di credito o comunque dell’affidamento secondo la prova scritta prevista a pena di nullità dall’art. 117 TUB e ritenere inammissibile ogni equipollente. Alla nullità dell’apertura di credito conseguirebbe la solutorietà di tutte le rimesse. Alla stregua di tali argomentazioni e ove le stesse non risultino errate, non si può condividere l’orientamento ripetutamente richiamato da parte attrice volto a deferire tale prova negativa in capo alla banca e non solo per la difficoltà di fornire la prova dell’inesistenza di un fatto ma per i presupposti su cui la tesi si baserebbe. Al di là infatti delle numerose pronunce di merito che si limitano ad affermare il principio senza punto chiarire da dove lo si dovrebbe ricavare, va ricordata la sentenza di legittimità 4518/14 che, asserendo anch’essa come in sostanza la solutorietà delle rimesse debba essere provata da chi intende farvi decorrere la prescrizione, fonda la sua convinzione sull’affermazione secondo cui le rimesse in un conto corrente hanno normalmente funzione ripristinatoria. (…) E’ appena il caso di ricordare che ove un conto corrente presenti sempre saldi attivi parrebbe esclusa  cioogni ripristinatorietà delle rimesse e ogni presunzione relativa (…). Del pari la presenza di scoperti di conto corrente non consente di evincere automaticamente la presenza di affidamenti. (…) pare quindi doversi confermare l’orientamento secondo cui la banca adempie al proprio onere di prova dell’eccezione allegando e deducendo il decorso del termine decennale dalla rimessa spettando invece a chi vuol far valere un decorso successivo, e quindi una diversa natura della rimessa, la prova della sua ripristinatorietà”.

Articolo tratto da

iusletter

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