Sace La privatizzazione? È tutto un rischio di Stato

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È un po’ come nel gioco della Peppa Tencia: chi si terrà il rischio? Lo Stato o il mercato? In questi giorni, malgrado la transizione di governo (che potrà rallentare i tempi), si sta lavorando sulla privatizzazione della Sace. È l’azienda assicurativo-finanziaria pubblica (al 100% della Cassa depositi e prestiti, che fa capo per l’80,1% al Tesoro e per il 18,4% alle fondazioni bancarie) dal business complesso. Assicura, fra l’altro, i crediti delle aziende italiane che lavorano con l’estero (suo cliente è Finmeccanica) e supporta gli investimenti delle Pmi italiane sui mercati internazionali. La settimana scorsa, per esempio, ha garantito con il Mediocredito italiano 10 milioni per l’espansione in Turchia di Crif (sistemi d’informazione creditizi).
Ma la faccenda sta diventando più complicata del previsto. Il problema è doppio: a) non si sa ancora se Sace sarà privatizzata al meglio portandola in Borsa (Ipo, offerta pubblica iniziale) o vendendola a un privato; b) non si sa nemmeno quanto patrimonio lasciarle in cassa, quindi che prezzo darle in caso di quotazione. Perché il patrimonio di Sace è parecchio, fin troppo perché sia gradito al mercato. Che la vorrebbe più snella e redditizia, cioè con un maggiore Roe (il ritorno sul patrimonio: cresce se il patrimonio scende). Ma, attenzione, sempre con le garanzie dello Stato sui rischi da crediti difficili. Insomma, Sace privata sì — si parla di cederne il 40-60% e secondo alcuni analisti un valore possibile sarebbe di 2-3,5 miliardi per queste quote — ma se le aziende garantite da Sace falliscono o non pagano più, interverrebbe il Tesoro, con i soldi dei cittadini, più che i soci privati.
Il tavolo tecnico
La questione è complessa, ma centrale: come e quanto scaricare i rischi dal bilancio della Sace a quello del Tesoro? Come far guadagnare bene l’azionista diretto (Cdp) senza esporre a troppi rischi quello indiretto (il Tesoro)? Su questo tema è stato aperto, prima dell’avvicendamento Letta-Renzi, un tavolo tecnico fra governo, ministero dell’Economia (la divisione privatizzazioni guidata da Francesco Parlato), Cdp, Ragioneria dello Stato e Sace. Ora i tecnici stanno continuando a lavorare, dicono al Mef: «Le operazioni di privatizzazione procedono».
Il problema si pone soprattutto con l’ipotesi Piazza Affari. La Borsa di Raffaele Jerusalmi apprezzerebbe la quotazione di Sace, ma il mercato chiede una società appetibile, che sia qualcosa in più di un titolo da cassettista. Il punto è che Sace è stata trasformata in spa — diversamente da altre società assicuratrici di Stato nel resto d’Europa —, ma è rimasta la garanzia dello Stato eventuale e successiva, in caso di default delle imprese assicurate e in ultima istanza. Insomma, Sace è ben capitalizzata per far fronte all’emergenza: un fatto positivo. Ma per prepararla alla Borsa si dovrebbe probabilmente scaricare più rischio sullo Stato.
Oggi il patrimonio di Sace è di circa 5 miliardi, più 2,5 di riserve tecniche. Questi 7,5 miliardi, fanno notare alcuni analisti, sono il cuscinetto del Tesoro: prima che il ministero debba intervenire, insomma, ci sono 7,5 miliardi pronti per pagare le potenziali perdite. Se si abbassa il capitale di Sace, per farne salire la redditività, i privati diventano proprietari a fianco del Tesoro, ma i rischi salgono solo per il Tesoro.
Sace, guidata dall’amministratore delegato Alessandro Castellano con impronta privatistica, non guadagna tantissimo, fanno notare fonti di mercato (neanche poco, però: 490 milioni l’utile lordo preconsuntivo 2013 della capogruppo, +25%), ma è una macchina da dividendi. Ha ben remunerato prima il Tesoro e ora laCdp. In dicembre ha deliberato un dividendo straordinario di un miliardo di euro e a fine 2012 ha distribuito 234 milioni su 255 milioni di utile netto: significa un «payout ratio» (il rapporto fra utili distribuiti e utili conseguiti) del 91%. Negli ultimi dieci anni ha fruttato 2,5 miliardi di dividendi su 3,6 miliardi di utile netto: il 70%. Ora si tratta di prepararla al matrimonio coi privati senza perderci.
Bain & Co. sta lavorando per conto di Sace (assistita anche da Goldman Sachs) al piano industriale che dovrebbe supportare la privatizzazione, mentre alla scelta strategica fra Ipo e acquirente industriale sta guardando, per conto di Cdp, Société Générale (che da perito indipendente già aveva valutato l’azienda — per 6,05 miliardi — al tempo della cessione dal Mef a Cassa, dicembre 2012). SocGen avrebbe dovuto terminare il 28 febbraio, ma il parere può slittare a marzo. Vediamo le due ipotesi, secondo fonti finanziarie.
Le due ipotesi
Piazza Affari sarebbe un vantaggio per il management (flessibilità, indipendenza, non da ultimo stock option), ragionano gli analisti, per il Tesoro e per la Borsa in astinenza da matricole. Di Sace si può quotare il 40%, ma anche la maggioranza, come per altre aziende pubbliche come Eni, Snam, Terna. L’idea è destinare l’offerta soprattutto a investitori istituzionali, come i fondi pensione. Se va bene, Sace, potrebbe debuttare al listino in settembre-ottobre. Ma c’è la grana delle perdite inattese.
La vendita a un socio industriale, invece, potrebbe in teoria portare più soldi alla Cdp guidata da Giovanni Gorno Tempini, ma si tratta di trovare un privato disposto a coinvestire con il pubblico. C’è una lista, pare, di 110 soggetti che hanno manifestato interesse: assicurazioni, riassicuratori, fondi sovrani e di private equity, banche. Ma in via teorica e la quota cedibile sarebbe, ragionevolmente, più vicina al 40% che al 60%. Sace è un tassello importante della politica industriale strategica dell’Italia. Si deve decidere se la si vuole affidare a un socio privato, o no. E il privato, probabilmente, chiederebbe uno sconto per entrare in una società ancora a forte presenza pubblica. Un dilemma in più per il nuovo governo.

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