Si eredita la Ferrari e con essa l’impresa
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Ma il dna dell’imprenditore non è detto segua la strada della genetica. Anche per questo molte imprese si infrangono sull’ostacolo della seconda generazione. Non tutte, fortunatamente. Ma dicono le statistiche che il passaggio generazionale è il principe degli scogli e solo pochi lo scalano indenni.
Quella che si profila oggi è la trasmissione d’impresa delle aziende fondate dagli imprenditori che hanno cavalcato il boom degli anni Sessanta, quando era sufficiente avere competenza, una buona idea e un buon prodotto, per fondare un’aziendina nello scantinato di casa. Un piccolo “cuore” d’impresa che, progressivamente, è andato crescendo trasformando l’aziendina in azienda, Pmi e, magari, grande impresa. Il miracolo del Nordest, insomma.
E oggi? Oggi le statistiche ci dicono che, nelle imprese italiane definite “familiari”, un imprenditore su 4 ha superato i 70 anni. Nel volgere di poco, dunque – lo dice l’Istat – circa il 18 per cento delle aziende dovrà affrontare la successione. Mentre sempre le statistiche ci dicono che solo il 13 per cento delle aziende sopravvive alla terza generazione.

Perché? Magari perché incappano in uno o più dei sette errori che si compiono in queste circostanze, o violano uno dei sette principi generali che, ricorda il professor Alessando Minichilli, sono utili «per affrontare al meglio il processo di trasmissione di beni e saperi». I sette capisaldi sono: distinguere l’impresa dalla famiglia, applicare un sistema di governance moderno, premiare le competenze, definire un quadro di regole condivise, prepararsi all’imprevisto, privilegiare una prospettiva di processo e coinvolgere attori terzi.
Una ricerca condotta da Idea Startup (che ci ha gentilmente concesso la “Check list” per aspiranti imprenditori), mette in luce che oggi l’imprenditore deve avere una grande professionalità maturata per anni in un settore specifico. Occorre cioè essere i più bravi in qualcosa di particolare, avere una grande passione. L’idea non basta: “Genius is one percent inspiration, ninety nine percent perspiration”, diceva Thomas Edison. «Uno studio condotto dalla Kauffman Foundation e basato su interviste effettuate a 549 founder di startup di successo negli Stati Uniti conferma quanto detto. Il profilo che emerge dalla ricerca evidenzia come i nuovi imprenditori in Italia siano radicalmente diversi dal cliché del giovane inesperto e ambizioso, nonché dal fondatore di imprese tipico del boom economico» commenta Marco Bicocchi Pichi, presidente di Idea Startup. «I nuovi founder hanno una preparazione di alto livello, messa a disposizione dell’economia del Paese». Osservando più da vicino il livello di formazione accademica, si scopre che il 33,5 per cento dei nuovi imprenditori ha concluso un lungo percorso di studi con una laurea di secondo livello.

Il 32,9 per cento ha conseguito un master ed è presente anche una nicchia di PhD (5,2 per cento dei founder), «un aspetto fortemente differenziante rispetto allo stereotipo che vorrebbe lo startupper molto giovane, certamente con lumi di genialità, ma senza un’esperienza corposa in ambito aziendale. Questo spaccato mostra invece un pool di “neo” imprenditori con una preparazione corposa dal punto di vista accademico e di esperienza nel proprio settore, una valorizzazione che si riflette nel fatto che in azienda vengano organizzati momenti di formazione interna per un periodo più lungo di 40 ore a dipendente per quasi un terzo delle startup».
Competenza, formazione, aggiornamento. Se questo vale per chi si “lancia” nell’impresa, per chi invece deve succedere alla guida? È vero, come si dice spesso dalle nostre parti, che una generazione costruisce e quella seguente disfa? «Troppe volte ci si concentra nel dare giudizi severi sui figli che ereditano l’azienda», rileva Maurizio Castro, direttore scientifico di master della business school Cuoa. «È vero che in diverse circostanze è emersa una insufficiente preparazione della successione. Ed è tanto più grave quanto, a Nordest, c’è stata una generazione formidabile di imprenditori che però hanno trascurato un insieme di fattori e anche la qualità della struttura manageriale della loro impresa». E da qui si può ricavare una prima indicazione: «Fare attenzione a costruire strutture manageriali oggettive che consentano un accesso più agevole e appropriato a chi deve proseguire l’attività».

Secondo Castro una governance più aperta è anche più solida, soprattutto «se c’è un ruolo più significativo del management». Purché sia autonomo e non «l’esecutore fedele delle volontà più o meno bizzose dell’imprenditore».
E ovviamente va valutato anche il management, evitando «di cadere nella trappola di chi esalta eccessivamente la creatività del manager. A mio avviso nelle sue qualità ci può essere un 10 per cento di fantasia, ma il 90 per cento di competenze. Il manager non è un aruspice che beve assenzio e indovina la strada per i mercati dell’Asia, ma ha approfondito la conoscenza di Paesi e mercati, ha studiato, analizzato e poi previsto». Detto di ciò, meglio le imprese guidate da imprenditori, o meglio i manager? Non dimenticando che, lo dicono i fatti, che i fondatori di aziende pensano al business, ovviamente, ma restano radicati al territorio, alla gente, ai valori. I capitali, invece, vanno dove conviene. È d’accordo? «Purtroppo quest’area ha subito un processo micidiale di razzia, si sono persi i tradizionali valori di riferimento e questo rende più complessa l’assunzione di responsabilità forti da parte del successore che ha ancoraggi meno affidabili. L’etica del lavoro, la vocazione comunitaria, il senso di responsabilità, il carattere corale della gestione… sono diventati fattori rari». E siccome imprenditori, oggi, non ci si inventa «vanno creati luoghi di formazione continua». Anche perché le sfide non mancano e non mancheranno.

Nel caso in cui l’erede manchi, o perché non c’è o perché i figli hanno ambizioni diverse, allora possono esserci alternative, magari da costruire. Ne è convinto Paolo Bruttini, socioanalista, esperto di open leadership. In un percorso di “ascolto” delle potenzialità e dei talenti che ci sono in ogni azienda, si individuano persone che riescono ad attivare soluzioni «a volte imprevedibili. Questo non significa lasciare spazio all’anarchia, ma pensare al management e alla leadership in modo aperto. L’imprenditore pone i confini, presidia la visione e detta le regole, e l’obiettivo è produrre valore. È partecipazione? Secondo noi è qualcosa di più». In che modo potrebbe agevolare la successione d’impresa? «Lo fa perché è un processo di imprenditorialità diffusa dentro l’organizzazione, e se l’imprenditore cede parte del capitale ai lavoratori, fa dei dipendenti i propri soci e, in assenza di successori, può cedere a loro l’impresa. Non solo, questo percorso può essere valido anche per affrontare la convivenza generazionale, che è il periodo in cui i figli si affiancano al padre nell’impresa. Ma l’imprenditore sceglierebbe i figli come soci? In che modo questi si creano una loro identità e poi conquistano la leadership? Anche questa è una fase complessa da gestire».

Infine Paolo Fusari, psicologo, past president dell’Ordine degli psicologi del Fvg, indica alcune qualità personali dell’imprenditore: «Essere resilienti, avere la capacità di affrontare situazioni difficili e critiche senza abbattersi

considerando che i successi possono non arrivare subito, avere una prospettiva a lungo termine. Quando si fa impresa, anche a livello individuale, si possono fare passi in avanti e passi indietro: l’importante è considerare entrambi come aspetti importanti».

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