Tutto in cash: che bello, e poi che si fa?

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Il cash è semplice, è minimalista, è zen. È la pace ritrovata per portafogli martoriati da prodotti strutturati tardobarocchi, da bond esausti dopo tre decenni di rialzi, da azioni altamente instabili e da un oro insopportabile come tutte le mode dell’anno precedente.

Il cash non costa commissioni di intermediazione, non produce redditi tassati e subisce solo l’erosione dolce dell’inflazione, invisibile come il monossido di carbonio e letale solo in tempi lunghi. Il cash consente di andare in vacanza tranquilli, di potere ignorare i telegiornali, di assumere un oppio perfettamente legale apparendo al tempo stesso saggi e oculati. Il cash allunga la vita, è la vita stessa, metafora del liquido primordiale che, mescolato con la polvere delle stelle, ci ha tutti generati. Da qualche tempo predichiamo il cash come alternativa ai bond, che per i prossimi anni andranno lasciati agli specialisti. Il portafoglio medio italiano è però a base di bond e di crediti, con tracce di azionario che diventano significative solo nei patrimoni medio-alti.

Negli ultimi tempi, come in tutto il mondo, la caccia al rendimento ha portato a un allungamento delle scadenze e all’accettazione stoica di qualità basse che in tempi normali sarebbero state rifiutate con sdegno.
Il nostro portafoglio di base, per il 2013, il 2014 e (forse) per il 2015 non è 80 bond e 20 azioni, ma 50 cash e 50 azioni. Quando si parla di cash si includono naturalmente tutti i titoli con orizzonte fino a un anno.

L’importante è che, nel caso si presenti un’opportunità sull’azionario, siano liquidabili senza rimetterci niente. I titoli indicizzati ai tassi a breve sono in teoria equivalenti a cash anche se hanno scadenze molto lunghe, ma in pratica subiscono penalizzazioni pesanti nei momenti di panico. Quanto agli indicizzati all’inflazione, se sono lunghi possono avere problemi di volatilità anche loro. Il cash-equivalent, quindi, dovrebbe essere il più possibile simile al cash vero.

In questa ultima settimana il cash è esploso come moda ed è stato praticamente l’unico asset richiesto dal mercato. Da tutto il resto si è cercato di fuggire tutti insieme e, in certi momenti, quasi ad ogni costo. Bond, crediti, materie prime, oro, azioni, emergenti, tutto è stato liquidato, ovvero trasformato in cash. Come in tutte le fughe dettate dal panico, i primi a scappare se la sono cavata, gli altri hanno subito perdite crescenti.

È legittimo chiedersi, a questo punto, che ne sarà di tutta la liquidità che si è venuta a formare nei portafogli. Quanto tempo resisterà senza essere reimpiegata? E come sarà reinvestita?

Un investitore individuale, in teoria, può restare liquido per tutta la vita perché nessuno gli corre dietro. Un gestore, un tesoriere o un trader istituzionale possono permettersi il lusso dell’inazione solo per un tempo limitato. Per loro restare al riparo sotto la pensilina è permesso solo finché grandina. Ora che la grandinata è terminata, complici le ricoperture di fine trimestre, gli istituzionali improvvisamente liquidi possono restare tali solo se riescono a convincere i loro committenti e clienti a credere che il mondo sia diventato un posto strutturalmente pericoloso, come lo fu ad esempio negli anni Settanta.

A dare ascolto al rapporto annuale appena pubblicato della Banca dei Regolamenti Internazionali il mondo è effettivamente un posto strutturalmente pericoloso, ma non per i motivi che hanno spaventato i mercati negli ultimi giorni.

La Bri, che dagli anni Trenta fa da banca delle banche centrali e da stanza di compensazione intellettuale tra l’interventismo della Fed e il conservatorismo europeo, è preoccupata per il tempo perduto dalla politica in questi anni di dopo-crisi. Cullati dai tassi bassi, i governi hanno aumentato l’indebitamento e rinviato, con poche eccezioni, le riforme dolorose, quelle sulla previdenza, la sanità, il mercato del lavoro e la concorrenza. Il debito è aumentato anche tra le famiglie (soprattutto in Europa) e in alcuni paesi emergenti. Il sistema è quindi fragile e non basterà un recupero ciclico della crescita per irrobustirlo. Se non si accelera sulle riforme, alla prossima recessione saranno guai molto seri per quasi tutti. La fiducia nei debitori sovrani, conclude la Bri, sarà allora a rischio anche nei paesi oggi considerati sicuri.

Le debolezze sottolineate dalla Bri meritano notti insonni da parte di chi investe. Di fronte agli scenari evocati tra le righe (default sovrani e bancari, ribassi obbligazionari severi, iperinflazione o, in alternativa, deflazione) anche chi si crede tranquillo nel cash sente correre un brivido gelido lungo la schiena.

I problemi che hanno tanto turbato i mercati in questi giorni sono in confronto poca cosa e appaiono esagerati e quasi inventati. Mentre l’oro viene raso al suolo perché non c’è inflazione, i bond vengono venduti perché si pensa che le banche centrali vogliano alzare i tassi per anni e anni a venire. Ora, mentre è vero che si vuole provare a impostare un ritorno lento e cauto verso tassi più normali (cioè più alti) là dove è possibile (non in Europa, non in Giappone), a nessuna banca centrale viene in mente di rischiare una ricaduta in recessione alzandoli più dello strettamente possibile.

In pratica i rialzi, per quest’anno, potrebbero essere già finiti. Parliamo naturalmente dei tassi a lungo, perché l’idea di alzare i tassi a breve non sta sfiorando nessun banchiere centrale. L’anno prossimo, a un certo punto, si darà un altro colpetto, sempre e solo sul lungo e solo se l’economia avrà dato segni di accelerazione in America e di stabilizzazione in Europa. Certo, a preoccupare i mercati in questi giorni è stata anche l’idea che la fine dell’immissione di liquidità sotto forma di Qe sia di per sé sufficiente, anche senza rialzi dei tassi, a fare scendere azioni e obbligazioni. In linea di principio è vero. Indipendentemente dai fondamentali buoni o cattivi, bond e azioni salgono se c’è molta liquidità e scendono se la liquidità viene ritirata.

Il timore di rimanere arenati dal ritiro del mare come i navigli fantasma del Mare d’Aral è però infondato. Alla fine del 2012 la base monetaria dei paesi industrializzati, che prima della crisi era pari a 4 trilioni di dollari, era salita a 10. Quest’anno la Fed aggiungerà un trilione. L’anno prossimo, ipotizzando che il Qe venga dimezzato e duri solo per i primi sei mesi, la Fed immetterà altri 270 miliardi. La Banca del Giappone, in compenso, ne immetterà 900. Fatti i conti, con il solo contributo di Stati Uniti e Giappone la base monetaria salirà dai 10 trilioni di dicembre a 12.2 trilioni a fine 2014. Senza contare il contributo inglese e quello che a un certo punto dovrà dare la Bce se vorrà evitare un apprezzamento dell’euro. Agli assetati verrà quindi dato da bere a sazietà.

Inflazione bassa, liquidità abbondante, portafogli sottoinvestiti ed economie che si preparano a un 2014 migliore non sono la grandinata che può giustificare lo stare alla finestra degli investitori istituzionali per più di qualche settimana. Le borse, ancora sottovalutate rispetto ai bond, saranno il destinatario principale della liquidità una volta che questa si rimetterà in cammino.

Idealmente, chi investe dovrebbe avere due portafogli. Il primo dovrebbe essere sintonizzato sul giorno del giudizio evocato dalla Bri. Solo bond di paesi con pochissimo debito, fattorie in Nuova Zelanda, oro e azioni di società con marchi centenari. In caso di apocalisse scenderebbero tutti, ma meno del resto e con la possibilità di recupero a crisi terminata. Ilsecondo portafoglio, sintonizzato sui prossimi due anni, dovrebbe avere invece una netta prevalenza di cash e azioni. La correzione azionaria in corso, che potrebbe prolungarsi tra alti e bassi per tutta l’estate, dovrebbe essere l’occasione per mettere gradualmente al lavoro una parte della liquidità.

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