Impresa non può più operare perché presa di mira da un pm
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Non passa l’esame di ammissibilità, sulla base della ormai “vecchia” legge Vassalli, oggi profondamente riscritte dalla contestata (dai magistrati) legge di riforma della responsabilità civile dei giudici, la richiesta di risarcimento del danno presentata da un’azienda che lamentava di essere stata bersaglio di più richieste di rinvio a giudizio da parte di un Pm; richieste più volte dichiarate nulle per difetti formali e poi seguite, alla fine, da un’assoluzione con formula piena.
Un’azione giudiziaria che però non era rimasta senza effetti visto che, sottolineava la difesa dell’impresa, si erano poi susseguite altre azioni – soprattutto di natura tributaria – che avevano compromesso l’operatività della società aggravandone in maniera sensibile lo stato economico. Tra queste, l’avvio di un’esecuzione esattoriale per oltre 2 milioni e mezzo per il recupero di contributi erogati in base alla legge 488/92 e la diminuzione dell’originario capitale sociale dell’originaria forma di società per azioni.
La Cassazione, malgrado questa ricostruzione, tratta dal ricorso presentato contro il giudizio della Corte d’appello che aveva bollato la richiesta con l’inammissibilità, chiude le porte all’impresa. E, con l’ordinanza n. 3916 della Sesta sezione civile, depositata ieri, chiarisce che la richiesta di rinvio a giudizio, a meno che non si fondi su fatti «pacificamente insussistenti ovvero avulsi dal contesto probatorio acquisito» è esclusa dal perimetro di applicazione della legge Vassalli.
La Cassazione motiva a fondo, spiegando (va ricordato che le motivazioni sono state scritte prima delle attuale riforma della Vassalli) che a prevalere deve essere un’esigenza di notevole spessore pubblicistico e cioè quella di garantire il più possibile «l’indipendenza diffusa del singolo pubblico ministero nell’attività di avvio, impostazione e finalizzazione dibattimentale dell’azione penale tutte le volte che si ravvisano elementi non avulsi dal contesto fattuale». In modo da assicurare in termini di effettività l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale.
In questa prospettiva, a venire valorizzati sono alcuni fatti, come la presenza di un sequestro preventivo che la società non aveva impugnato e la presenza di due decreti del Gup che disponevano il giudizio all’esito dell’udienza preliminare. Del resto, per poter contestare, a ragion veduta, una sorta di accanimento da parte del Pm, osserva la Cassazione, non basta da sola la ripetizione delle richieste di rinvio a giudizio: servono altri e specifici elementi, altrimenti anche le plurime richieste di giudizio potrebbero testimoniare anche solo la volontà del Pm di corrispondere al proprio dovere istituzionale, correggendo via via gli errori che sono emersi nel corso del procedimento.
La stessa relazione dalle cui conclusioni il collegio giudicante mette nero su bianco di non avere ragioni per discostarsi, mette in evidenza come il Pm debba formulare la sua richiesta di rinvio a giudizio al Gup tutte le volte che ritiene gli elementi probatori raccolti non insufficienti o contraddittori o comunque non idonei a supportare l’accusa in giudizio, sulla base di in un giudizio che alla fine è della stessa natura di quello del Gup, fondato cioè sulla «mera verosimiglianza di una prognosi favorevole». Una conclusione che non può essere messa in dubbio per il fatto che, dopo il dibattimento, c’è stata un’assoluzione anche con la più ampia formula possibile come quella dell’insussistenza del fatto.

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