Intesa. Il ritorno dei banchieri. Aziende e famiglie vogliono credito

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Chi poteva immaginarlo? Nell’ultimo anno anche l’ovattato mondo dell’alta finanza italiana ha fatto i conti con cambiamenti epocali. Ha cominciato Mediobanca, nel giugno scorso, annunciando la fine dei patti di sindacato che erano lo strumento con cui ha governato per mezzo secolo un capitalismo definito non a caso senza capitali e quindi in grado di reggersi grazie al sistema delle partecipazioni incrociate. Ma anche il più grande gruppo bancario italiano, Intesa Sanpaolo, sta cambiando pelle. La scelta è di archiviare, per la verità senza rimpianti, il modello che ne aveva voluto fare una banca «a sostegno del Paese». O, secondo una definizione esterna al gruppo ma che ha avuto una certa fortuna, «la banca di sistema» quasi per definizione.

Signori, si vende
Così Intesa Sanpaolo ha voltato pagina e sta liquidando l’affollato portafoglio delle partecipazioni. Una scelta confermata dall’amministratore delegato, Carlo Messina, che però ne ha anche sottolineato il carattere tutto sommato simbolico perché, come ha spiegato, le partecipazioni rilevanti «sono solo lo 0,5 per cento del totale degli asset della banca», a cominciare da quella in Rcs Mediagroup, editore di questo giornale.
Il primo segnale di cambiamento è stata la vendita, annunciata l’11 novembre scorso, dell’1,3 per cento delle Generali, quanto restava di una partecipazione che ha rappresentato sia un tassello importante del network di alleanze strategiche sia il cardine intorno a cui avrebbe dovuto ruotare un progetto altrettanto significativo di sinergie tra banca e assicurazione. La parola fine è stata messa chiudendo con successo l’offerta dei titoli sul mercato ricavando poco meno di 348 milioni (pari al prezzo di 16,60 euro per azione ordinaria) e portando a casa un contributo positivo in termini di utile netto su base consolidata intorno a 63 milioni di euro.
Cassa
Un mese dopo è andata in scena la seconda cessione, che ha riguardato il 29 per cento circa del capitale di Sia, la Società interbancaria per l’automazione, con una plusvalenza netta intorno a 150 milioni di euro. Intesa Sanpaolo ha mantenuto una presenza nel capitale, intorno al 4 per cento, ma lo sganciamento è definitivo e la palla è passata al Fondo strategico italiano della Cassa depositi e prestiti, più un paio di alleati. E, proprio pochi giorni fa, è stata chiusa una terza operazione: l’offerta sul mercato dell’1,5 per cento della Pirelli C., cioè l’intera partecipazione nel capitale della società detenuta da Intesa Sanpaolo. E anche in questo caso il saldo è risultato positivo: 55 milioni di utile netto su poco più di 89 milioni incassati.
In altre situazioni chiudere senza troppi danni gli investimenti fatti non sarà facile, a partire dalla presenza nel capitale di Alitalia, della Ntv nei trasporti ferroviari, della Telco (a cui fa capo la partecipazione di maggior peso in Telecom Italia). Ma la strada ormai è stata presa, come risulta dalle dichiarazioni dello stesso Messina: «La nostra visione – ha spiegato – è che la banca si concentrerà sempre di più sul fare credito. L’obiettivo è creare valore per gli azionisti, non fare operazioni entrando nell’equity o in altri strumenti finanziari». E ancora, l’11 marzo scorso: «Non accetto la definizione di banca di sistema. Siamo una banca dell’economia reale. E puntiamo ad azzerare le partecipazioni che hanno connotazioni istituzionali».
Il cambiamento
La strada è senza ritorno perché, rispetto a pochi anni fa, è cambiato il mondo. In particolare sono diventate pressanti le richieste delle autorità di vigilanza. La Banca d’Italia, di fronte alla grande crisi dell’economia reale e alla vigilia delle verifiche di bilancio a livello europeo, chiede più accantonamenti e pone come priorità assoluta il rafforzamento patrimoniale. «Non possiamo permetterci scelte diverse», dice Gian Maria Gros-Pietro, presidente del consiglio di gestione dell’istituto.
Alcuni numeri lo confermano. A inizio 2008, quando andava in scena il crollo dei mercati finanziari, Intesa Sanpaolo aveva un core tier 1 , il parametro più utilizzato come indicatore della solidità patrimoniale di una banca, poco sopra il 6 per cento e l’obiettivo, considerato all’epoca ambizioso, era arrivare al 7 per cento. Molto distante da quello raggiunto nei mesi scorsi, quando ha superato quota 12 per cento. Un livello che, peraltro, Bankitalia chiede di migliorare ancora.
L’eccezione
Ma c’è anche una seconda motivazione che spiega la scelta di andare verso la vendita delle partecipazioni: la certezza che vada tenuto separato il ruolo tradizionale di banca finanziatrice di società da quello di azionista. «Meglio fare un mestiere solo – aggiunge Gros-Pietro -. Facendoli entrambi la posizione diventa scomoda perché possono nascere conflitti d’interessi che indeboliscono sia la posizione di banca creditrice sia quella di banca azionista. L’eccezione è Banca Imi, come banca d’affari del gruppo, che è autonoma, fa la banca d’investimenti ed è bene rimanga separata per distinguere attività molto diverse».
La scelta di voltare pagina è ampiamente condivisa dal vertice di Intesa Sanpaolo, sia in consiglio di gestione sia in consiglio di sorveglianza. Il problema, semmai, è un altro: procedere senza fretta. Il che significa continuare a vendere bene, possibilmente con plusvalenze adeguate, e senza provocare sconquassi nelle società partecipate, né problemi di governance .

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