Per le banche italiane in arrivo aumenti da almeno 7 miliardi

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Almeno 7 miliardi di euro. A tanto ammonta, a conti fatti, il fabbisogno di capitale fresco delle banche italiane nel corso 2014. E il conto rischia di rivelarsi solo provvisorio. A costringere gli istituti tricolori a varare una lunga serie di aumenti di capitale è l’avvicinarsi degli esami previsti dalla nuova vigilanza europea. A partire da marzo scatterà infatti l’Asset quality review della Banca centrale europea, che costringerà i 128 principali istituti del Vecchio Continente ad accantonare più capitale sui crediti dubbi per raggiungere una solidità maggiore. A questa prima prova si aggiungeranno nei mesi successivi gli stress test condotti dall’Eba, che verificheranno la tenuta dei bilanci bancari in condizioni di scenari estremi.
Gli aumenti già annunciati
Di fronte a queste sfide, le banche italiane stanno correndo ai ripari. Tanto che molte di esse hanno già annunciato nei mesi scorsi di voler scendere sul mercato per chiedere agli azionisti denaro fresco così da adeguare i coefficienti patrimoniali. L’ultimo istituto in ordine di tempo è stato appunto il Banco Popolare, che venerdì scorso ha annunciato un aumento da 1,5 miliardi che scatterà già dal primo aprile. L’obiettivo? Raggiungere un Core Tier 1 ratio “fully phased” del 10% alla vigilia dell’Aqr. Inaspettato sia per tempistica che per ammontare (come ha segnalato il calo del titolo del 14,9% ieri in Borsa), il maxi-aumento dell’istituto guidato da Pierfrancesco Saviotti è stato studiato per bruciare sul tempo gli altri competitor che già si muovevano verso una patrimonializzazione. Quegli stessi competitor che ora dovranno accelerare i tempi per non ritrovarsi, tra qualche mese, in un mercato dei capitali ingolfato, con troppi pretendenti e poca offerta dal lato dei consorzi di garanzia. Mentre appaiono salvi i due giganti Intesa Sanpaolo e UniCredit (che infatti ieri in Borsa si sono mosse con variazioni contenute rispettivamente al +0,78% e -0,45%), chi deve fare bene i suoi conti è Mps (-4,28%), la cui assemblea dei soci a fine dicembre ha bocciato la proposta del CdA presieduto da Alessandro Profumo di lanciare a gennaio l’aumento di capitale da 3 miliardi rinviandolo a giugno. Annunciato da tempo (e slittato già due volte) è anche l’aumento di Bpm (-5,61%), che deve rastrellare 500 milioni di euro. In questo caso si è aggiunta proprio venerdì sera un’ulteriore incognita: l’uscita di scena del primo azionista Andrea C. Bonomi, che ha venduto inaspettatamente l’intera partecipazione sul mercato, ha lasciato scoperta (virtualmente) una quota pari all’8,6% del capitale. Altri aumenti già comunicati sono quello di Carige (-2,5%) – che dovrà raccogliere 800 milioni di euro, anche tramite la cessione di alcuni asset – cui si aggiunge quello di Banca Marche, istituto oggi commissariato su cui pende una patrimonializzazione prevista da 400 milioni. Ma non basta. Secondo diversi osservatori, uno dei prossimi istituti a dover ricapitalizzare (o a subire in alternativa un’aggregazione) è Veneto Banca, uno dei 15 istituti italiani che finirà sotto la supervisione della Bce e che oggi ha un Core Tier 1 del 7,2%.
I possibili prossimi aumenti
A finire sotto pressione ieri tuttavia sono state soprattutto le banche popolari. Perchè lo “scatto in avanti” del Banco Popolare potrebbe scatenare un effetto a cascata proprio in casa di altri istituti a modello mutualistico. Gli analisti di Equita segnalano che ad essere a rischio sono soprattutto il Creval (-9,47%) e Bper (-7,89%). Entrambe presentano un Core Tier 1 inferiore all’8%. E secondo la casa di brokeraggio, gli aumenti di capitale potrebbero aggirarsi rispettivamente sui 300 e 500 milioni di euro. Se da parte del Creval ieri è arrivato un «no comment» di fronte all’ipotesi di un aumento, l’ad di Bper Luigi Odorici ha detto a Reuters che «allo stato attuale, rispetto ai requisiti previsti dalla Bce rispetto al common equity minimo dell’8% noi prevediamo di essere sopra questa soglia».
Il conto dei 7 miliardi circa previsti fino ad ora potrebbe tuttavia non essere definitivo. Perchè a mancare all’appello sono ancora gli istituti più piccoli, ovvero quelle Bcc che stanno subendo i colpi più duri della crisi economica per colpa di un eccesso di concentrazione e una scarsa capacità di ridurre i costi. Delle 12 banche commissariate da Bankitalia, non a caso, più della metà sono banche di credito cooperativo.

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