L’inspiegabile riduzione della trasparenza sul rischio finanziario: realtà normativa ed equivoci europeisti

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1 – La trasparenza finanziaria: lapproccio iniziale e la deriva ipertrofica dellinformazione

La trasparenza domina ormai l’intera legislazione bancaria e, soprattutto, finanziaria. In quest’ultimo segmento dell’operare economico il termine ricorre praticamente in ogni precetto, o anche solo in ogni affermazione di principio, che involga il momento della manifestazione di un’offerta, poco importa se ecumenica o personalizzata, nei confronti degli investitori. Essa vi appare, ieratica e venerata, come un miraggio palpabile.

Eppure, malgrado questo uso e abuso terminologico e concettuale, non esiste norma che definisca in termini chiari il significato che alla parola dovrebbe attribuirsi.

In ambito finanziario, è invalso da tempo il convincimento che la trasparenza siaun attributo dell’informazione sostanzialmente quantitativo (utilizzo questo aggettivo in termini del tutto atecnici e ben diversi da quelli di cui mi avvarrò in prosieguo). Trasparenza, dunque, quale obbligo dell’intermediario di mettere a disposizione del pubblico o del singolo investitore quante più informazioni possibili.

Tale convincimento muove da un’ovvia constatazione: il bagaglio conoscitivo costituisce, ad un tempo, un patrimonio primario e un’arma di contesa negoziale. E quanto più complesso e sofisticato sia il sistema, tanto più prezioso diviene quel patrimonio e tanto più temibile quell’arma. La ragione di tutto ciò risiede nella natura stessa del prodotto finanziario, che, per quanto articolato possa essere, origina pur sempre da un rapporto di natura contrattuale. In tale contesto, il numero degli elementi conoscitivi a disposizione dell’offerente e del cliente possono sensibilmente differire, producendo quel fenomeno, comunemente noto come “asimmetria informativa”, per il quale una parte si trova a beneficiare di un vantaggio differenziale, disponendo di dati e conoscenze di cui l’altra parte non dispone e non condividendo previamente con quest’ultima tali maggiori cognizioni. Ne deriva un evidente squilibrio destinato ad influire sulla determinazione delle parti alla conclusione dell’operazione e alla definizione delle relative condizioni.

Così, dalla disciplina del prospetto alla direttiva 2004/109/CE, meglio nota come, appunto, Direttiva Transparency, poi trasposta nel Regolamento Emittenti (e solo per citare qui due estremi simbolici del fenomeno), il sistema informativo finanziario si è sempre primariamente concentrato sulla quantità, nel senso di numero di informazioni, che l’intermediario deve porre a disposizione del cliente, nel teoricamente condivisibile obiettivo di aumentare la trasparenza proprio attraverso l’accrescimento dei dati e la facilitazione al loro accesso.

2 – Il fallimento dellinformativa pletorica e il passaggio allapproccio qualitativo

Tale obiettivo, in concreto, è stato pienamente fallito. E non è arduo comprenderne la ragione se solo si pone mente a tre (indiscutibili e ineliminabili) fattori oggettivi: in primo luogo, l’inevitabile tecnicismo dell’informazione finanziaria (che può essere forse linguisticamente semplificata, ma non certo banalizzata o “volgarizzata”); in secondo luogo, la scarsa educazione finanziaria del risparmiatore medio (e non è realistico né pensare né pretendere che il risparmiatore divenga un erudito del settore); in terzo luogo, il tempo decisionale. Quest’ultimo fattore, in particolare, è stato ampiamente sottovalutato, ma in realtà ha giocato e gioca un ruolo essenziale nel fallimento dell’approccio quantitativo (nell’atecnica accezione sin qui utilizzata) dispiegato dal legislatore. È, in effetti, semplicemente fantasioso supporre che la scelta di un investimento possa aver luogo dopo un’approfondita e meditata analisi e indagine dei contenuti dell’informazione ricevuta: chi mai avrà la pazienza, la capacità, ma soprattutto il tempo tecnico per condurre la disamina di prospetti sempre più simili, per spessore del tomo e grandezza dei caratteri di stampa, alle ormai soprassate guide telefoniche?

Nella quotidiana realtà dei mercati, il sovrabbondare di informazioni ha condotto al paradossale, ma eziologicamente spiegabilissimo, esito opposto a quello sperato: vale a dire l’irrilevanza della quantità informativa e la sua sostanziale inutilizzabilità. In breve, “troppe informazioni” finiscono per equivalere a “nessuna informazione”. Con l’ulteriore e non meno paradossale conseguenza per cui il prospetto, più che assolvere al suo naturale fine di strumento di informazione, diviene invece un mezzo di protezione legale dell’emittente o del collocatore, il quale, dispensando l’informazione sia pur in forme non leggibili dall’utenza finanziaria comune, avrà comunque la certezza di non incappare in responsabilità omissive.

Nel tempo e nel frattempo, tuttavia – e non secondariamente in ragione della costatata inefficienza della “grezza quantità” – l’attenzione dell’ordinamento è andata volgendosi in una diversa direzione, nella direzione cioè di riconoscere alla trasparenza una valenza primariamentequalitativa.

Ora, la descritta assenza di un riferimento definitorio nel diritto positivo obbliga l’interprete ad uno sforzo (ri)costruttivo di non poco momento insieme alla riflessione per cui il termine, siccome contrapposto ad analoghi, prossimi ma per ciò solo distinti concetti, deve necessariamente possedere un suo autonomo significato.

Che cos’è dunque, o che cosa può essere, la trasparenza in ambito finanziario?

Di certo, essa non coincide né con la chiarezza né con la veridicità dell’informazione, quantunque un’informazione trasparente debba sicuramente essere chiara e vera. La chiarezza implica che ciò che si dice venga esposto in maniera non equivoca, insuscettibile cioè di dare adito a interpretazioni o letture plurime. La verità implica che l’informazione costituisca la rappresentazione di un dato o di un fatto reale, nel senso di aderente alla realtà storica ad esso sottesa.

La trasparenza diviene allora qualcosa di più e di diverso dalla chiarezza e dalla verità. Può sembrar banale, ma la definizione del concetto transita attraverso una ricerca prettamente semantica. Il termine trasparenza non appartiene geneticamente al linguaggio finanziario, bensì a quello fisico, più precisamente a quell’ambito della fisica che prende il nome di “elettromagnetismo” e alla sua branca denominata “ottica”: in tal senso, la trasparenza è né più né meno che la proprietà di un corpo di lasciar passare la luce in modo da rendere perfettamente visibile ciò che gli stia dietro. Come tale essa si contrappone alla “traslucenza” là dove il corpo ostacoli, con più o meno forza, il passaggio della luce sicché diventi parallelamente più disagevole vederci dietro. L’impiego metaforico del termine assegna dunque alla trasparenza l’attributo dellapenetrabilità dell’informazione. E’ trasparente dunque l’informazione che non solo è chiara e vera, ma che consente di poterne cogliere appieno il significato rivelando anche ciò che sta alla base della sua creazione.

3 – Lapproccio qualitativo nella riforma MiFID

Siffatto incremento del profilo qualitativo della trasparenza finanziaria è profondamente radicato nel sistema normativo vigente per come emergente dalla riforma MIFID del 2007 (che, per i molti guasti che ha arrecato, ha tuttavia avuto il – pur solo – merito di mutare quanto meno la filosofia di disciplina dell’informazione).

Il novellato impianto lascia cadere un enfatico accento sull’informazione col proposito di incrementarne il livello di qualità e di “visibilità”. Tale richiamo può riconoscersi in due ordini di previsioni. Per un verso, l’estensione della nozione stessa di informazione; per altro verso, l’accentuazione e la declinazione del principio di comprensibilità.

Sotto il primo profilo, l’art. 27 del nuovo Regolamento Intermediari (16190/2007) qualifica come informazione, assoggettandola in termini indifferenziati al nuovo regime, qualunque informazione indirizzata ai clienti o ai potenziali clienti o “probabilmente dagli stessi ricevuta” (v. anche art. 28 Reg. cit.). Ne consegue che l’informazione deve obbedire ai requisiti imposti dalla disciplina anche ove non sia un’informazione personalizzata o definibile come, in senso stretto, precontrattuale. Ragion per cui nell’informazione viene inclusa anche la mera comunicazione pubblicitaria e promozionale che, pertanto, oltre ad essere chiaramente riconoscibile come tale, dovrà comunque atteggiarsi al pari di un’informazione resa al cliente specifico in vista di una data scelta di investimento. Il contesto promozionale, insomma, non giustifica più, di per sé, un’informazione atecnica o aspecifica. Il pacchetto informativo trasmesso alla clientela, quale che sia il veicolo o la forma di trasmissione, deve costantemente conformarsi ad un modello informativo in cui è onere dell’intermediario colmare il differenziale cognitivo esistente fra il proprio bagaglio nozionale e quello della clientela, attuale o potenziale, che ne sia destinataria.

Sotto il secondo profilo, l’art. 27 del Regolamento citato richiede che le informazioni siano fornite “in una forma comprensibile”, siano cioè tali da far sì che i clienti “possano ragionevolmente comprendere la natura del servizio di investimento e del tipo specifico” di strumento finanziario offerto, nonché i connessi rischi onde consentire l’assunzione di consapevoli scelte di investimento.

Quello della comprensibilità dell’informazione è un tema antico e nevralgico, oltre che rimasto a lungo irrisolto. Le definizioni legislative e regolamentari non s’arrischiano a fornire modelli specifici di comprensibilità e lo sforzo enunciativo si riduce spesso ad un esercizio tautologico, ma è significativo che il principio di comprensibilità venga riaffermato con maggior vigore e che ad esso si aggiunga, sia pur con un discutibile inglesismo, il principio di ragionevolezza della comprensione. In termini concreti, tanto obbliga l’intermediario a rivedere il proprio metodo espositivo, a dipanare il tecnicismo del linguaggio e a proporre l’informazione in termini più accessibili di quanto sin qui non si sia fatto. Ad esempio, nell’enunciazione del principio di correlazione fra rischio e rendimento, l’intermediario non potrà limitarsi (come pure si limitava il “Documento Rischi” allegato al regolamento previgente) ad esprimersi in termini complessi, quando non criptici, dando per scontato il possesso di un pacchetto nozionistico elementare in capo all’investitore, ma dovrà viceversa indugiare sulle componenti essenziali ed esplicitarle, occorrendo anche attraverso esemplificazioni, essere didattico, didascalico.

La normativa offre uno spunto in tal senso, qualificando come ragionevolmente comprensibili le informazioni aventi un contenuto e presentate in modo tale da poter essere comprese, “con ogni probabilità”, dall’“investitore medio” del gruppo cui esse sono destinate (art. 28.2.c Reg. Int.). L’introduzione del principio probabilistico, coniugato alla nozione di investitore medio, obbliga necessariamente l’intermediario alla scelta didascalica sopra enunciata. Occorre infatti considerare che il livello di conoscenza finanziaria del medio investitore italiano è, sul piano statistico, particolarmente modesto e pertanto l’informazione che debba, in modo decisamente probabile, essere compresa da un investitore dotato di modesta cultura finanziaria deve necessariamente rinunciare alla seduzione di un linguaggio eccessivamente forbito e di un’esposizione ricca di tecnicità.

Ai nostri fini, tuttavia, il tentativo di assegnare una più concreta fisionomia all’attributo della comprensibilità diviene l’indice di una tensione di trasparenza propriamente qualitativa. E’ evidente infatti che la comprensibilità non si riduce, né può ridursi, ad un mero risultato linguistico, ma deve investire il concetto che viene trasmesso. Non è solo questione di rendere leggibile il contenente, ma di dare senso e penetrabilità al contenuto. Nel richiedere che l’informazione sia comprensibile, la nuova disciplina impone di rendere accessibile anche il significato ultimo delle parole. Se, ad esempio: se si offre un titolo strutturato, nel descriverlo sarà necessario esprimere in termini chiari ed espliciti che lo strumento può esporre ad un rischio elevato. Saremo con ciò in presenza di un informazione vera e chiara. Ma affinché quell’informazione divenga altresì veramente trasparente, si dovranno necessariamente illustrare le ragioni del rischio, il perché il rischio si concreta, e soprattutto come e quanto la componente di rischiosità può generarsi ed emergere. Dunque sarà necessario chiarire la meccanica costruttiva del prodotto e, occorrendo con l’ausilio di esempi e simulazioni, renderne evidente il funzionamento e la possibile deriva verso i livelli massimi di rischio ipotizzabili. L’informazione sarà trasparente se riuscirà, per l’appunto, a rendere trasparente il prodotto, a permettere che la luce ne attraversi i congegni in modo da esporli,nitidi e funzionanti, agli occhi del ricevente.

E’ evidente quindi che l’informazione voluta dal sistema MiFID travalica il concetto quantitativo, protendendosi verso un obiettivo di qualità, verso un’effettiva “destinazione di trasparenza”: precisamente nel senso di obbligare l’intermediario a fornire quelle informazioni che consentano al cliente di “veder dietro” a ciò che pure sia detto in maniera chiara e vera.

4 – La trasparenza in senso stretto quantitativo: laccrescimento della qualità informativa attraverso il metodo probabilistico

Quali sono, in tale mutata prospettiva, le zone grigie su cui dovrebbe soffiare il vento della trasparenza qualitativa facendo giustizia di ogni opacità e di ogni più o meno accentuata traslucenza? E in quale misura l’ordinamento ha risposto, sta rispondendo o sta cessando di rispondere a questo bisogno?

Due, in particolare, i profili essenziali di qualsivoglia prodotto finanziario sui quali la trasparenza qualitativa diviene irrinunciabile: il prezzo e il rischio.

Muoviamo dal prezzo. Nel sistema MiFID le borse e gli MTF devono assicurare la trasparenza del prezzo. Il che presuppone, ma di per sé non significa, che il prezzo sia chiaro e vero. Se il prezzo dello strumento finanziario è pari a 100 e se al mercato si comunica 100, si fornisce un’informazione sicuramente vera e sicuramente chiara. Tuttavia, una siffatta informazione non potrà ancora dirsi “trasparente”, in quanto chi la riceve sa che lo strumento in questione costa chiaramente ed effettivamente 100, ma non sa come si sia pervenuti a quel costo. In questo caso, un’autentica trasparente informazione sui prezzi presupporrebbe la rivelazione anche del meccanismo di pricing.

Una siffatta rivelazione costituisce un primo reale passaggio ad un modello informativo teso a rendere propriamente trasparente lo strumento offerto. Così, quando la Consob, con la comunicazione n. DIN/9019104 del 2 marzo 2009 (1), raccomanda di “effettuare la scomposizione (c.d. unbundling) delle diverse componenti che concorrono al complessivo esborso finanziario sostenuto dal cliente per lassunzione della posizione nel prodotto illiquido, distinguendo fair value (con separata indicazione per leventuale componente derivativa) e costi – anche a manifestazione differita – che gravano, implicitamente o esplicitamente, sul cliente”, precisamente essa si prefigge di dare qualità all’informazione, di rendere veramente trasparente il prezzo, permettendo al cliente di “veder dietro” al numero.

Se il prezzo costituisce indubbiamente, nell’ordine, il primo fattore di scelta del cliente, non v’è dubbio che il fattore decisivo nella determinazione di investimento sia poi il rischio, termine che, asetticamente considerato, esprime né più né meno che la probabilità che il prodotto su cui è caduta o cadrà la scelta dell’investitore generi perdite piuttosto che profitti.

Sul versante del rischio e del connesso scenario di probabilità del suo avveramento, sarebbe davvero ingiusto, ingeneroso e intellettualmente disonesto dire che nulla è stato fatto nel nostro ordinamento. E’ vero semmai il contrario.

Sempre la già menzionata raccomandazione sugli illiquidi contiene un esplicito paragrafo che val la pena di leggere con estrema attenzione. Il § 1.5 di quella comunicazione così recita: “per illustrare il profilo di rischio di strutture complesse, è utile che lintermediario produca al cliente anche le risultanze di analisi di scenario di rendimenti da condursi mediante simulazioni effettuate secondo metodologie oggettive (ossia rispettose del principio di neutralità al rischio)”.

Scenario di rendimento, ossia scenario di probabilità che il rendimento del prodotto sia positivo o negativo. Gli economisti chiariscono cosa sia uno scenario probabilistico e, se come giuristi possiamo comprendere che la sua costruzione è estremamente delicata e complessa, possiamo però anche capire che la sua lettura è estremamente semplice, perché si riduce alla valutazione di alcuni elementi percentuali. A voler semplificare in termini brutali, a due percentuali. Se all’investitore si rappresenta in una tabella riassuntiva che, ad esempio, il rendimento negativo sarà pari al 25%, quello neutro al 70%, quello positivo al 5%, l’investitore potrà avvedersi che l’investimento gli darà 5 probabilità su 100 di perdere e 95 di stare al sicuro e quindi, in termini più “raffinati”, 1 probabilità su 4 di perdere, 2,8 su 4 di riottenere quanto investito e 0,2 su 4 di guadagnare. Il prodotto sarà così più trasparente e la sua scelta potrà dunque essere decisamente più cosciente e informata.

In tal senso, l’approccio qualitativo diviene, questa volta non più in senso lato bensì in senso stretto e tecnico, un approccio quantitativo. La qualità transita attraverso la quantità, dove quest’ultima non è più integrata dal numero delle informazioni messe a disposizione dell’investitore, bensì dal metodo di stima effettuata con criteri probabilistici, che per l’appunto quantificano il rischio sotteso all’investimento.

E che questo sia e fosse il veicolo più affidabile per pervenire ad un vero salto qualitativo nella trasparenza è un dato confermato dalle stesse evidenze normative e regolamentari. Sennonché qui si assiste ad una singolare e, come noterò fra un istante, inspiegabile inversione di tendenza.

5 – Il più recente (e inspiegabile) percorso regressivo: lequivoco del vincolo europeo

Il Regolamento Emittenti, nella sua versione anteriore alla modifica operata con la Del. Consob n. 18210/2012, contemplava espressamente l’introduzione degli scenari probabilistici per la più parte dei prodotti da offrirsi al pubblico. In particolare, la previsione per fondi comuni, Sicav e unit linkedera contenuta nell’allegato 1.B (Modalità di redazione del prospetto per lofferta e/o per lammissione alle negoziazioni di OICR e per lofferta di prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione e relativi schemi). Nella versione successiva alla modifica della predetta delibera, tuttavia, l’obbligo scompare per i fondi, mentre permane per le unit e index linked.

Tale eliminazione non è stata ovviamente casuale, bensì motivata da una modifica normativa intervenuta a livello comunitario, più precisamente la direttiva 2009/65 (meglio nota come UCITS IV) e il relativo regolamento 583/2010. Queste disposizioni hanno modificato la disciplina dei prospetti dei fondi ribattezzando quale semplice prospetto il prospetto completo e sostituendo il prospetto semplificato con il Key Information Investor Document, meglio noto sotto il suo acronimo KIID. Si tratta di una scheda di un paio di pagine che dovrebbe sintetizzare, in poche righe e qualche numero, i principali fattori di rischio di un investimento in fondi. Il KIID è un documento suddiviso in alcune sezioni (Obiettivi e politiche di investimentoProfilo di rischio/rendimento,SpesePerformance passate e Informazioni pratiche) che dovrebbe, nelle intenzioni, avere una struttura e un contenuto uniformato per tutti i paesi dell’Unione.

Ora, la lettura che Consob pare aver dato della riforma, attraverso la cancellazione dell’obbligo di previsione di uno scenario probabilistico, è nel senso che la direttiva operi una preclusione al mantenimento nel KIID dell’indicazione di tali scenari: ciò presumibilmente in ragione della forma “rigida” che il documento in questione parrebbe aver ricevuto dal cit. Reg. 583/2010. Un ulteriore argomento che potrebbe militare a favore di tale lettura consisterebbe nel fatto che gli “scenari di performance” (indicatore ben diverso dallo scenario probabilistico (2)) sarebbero previsti solo per i KIID di organismi di investimento collettivo strutturati (cfr. art. 78, comma 3 lett. c della Direttiva e 36, comma 3° del regolamento). Dunque la nuova disciplina contemplerebbe un documento “chiuso” e a contenuto vincolato, “apribile” solo attraverso un diverso metodo di rappresentazione, a sua volta predefinito (what-if), e solo in relazione ad una limitata categoria di prodotto (OICVM strutturati).

Tuttavia, una simile lettura appare in quale misura estremizzare la stessa impostazione adottata dal legislatore comunitario e scambiare quello che è e vuole essere un documento di sintesi dell’informazione in una sorta di “gabbia espositiva”. Siffatta lettura appare tuttavia incompatibile vuoi con lo spirito vuoi con la lettera tanto della direttiva UCITS IV quanto dell’art. 98/ter t.u.f. introdotto dal d. lgs. 16 aprile 2012, n. 47 attuativo della prima.

In effetti, l’art. 79 della direttiva, coerente allo stilema MiFID, richiede che il KIID contenga informazioni chiare, corrette e non fuorvianti. Il comma 3° dell’art. 98/quater, nell’attuare il precetto comunitario, ne offre una declinazione più dettagliata statuendo che “il documento contenente le informazioni chiave per gli investitori e il prospetto devono consentire agli investitori di poter ragionevolmente comprendere la natura e i rischi dellinvestimento proposto e, di conseguenza, effettuare una scelta consapevole in merito allinvestimento”. Nuovamente, dunque, un’apertura di taglio qualitativo alla trasparenza dell’informazione: qualità che l’inclusione dello scenario probabilistico potrebbe invece utilmente conseguire. La struttura del KIID sarà rigida ma non altrettanto rigido è il contenuto che ciascuna sezione può contenere e, in tal senso l’art. 7 comma 2° del regolamento, si limita a fornire indicazioni di tipo compilativo a fronte di specifiche caratteristiche del prodotto, mentre il successivo comma 3° consente espressamente l’indicazione di elementi diversi da quelli (esemplificativamente) enunciati al comma 2°.

Così come non è affatto una gabbia – anzi è semmai espressione dell’esatto contrario – la disposizione del comma 7° dell’art. 1 della direttiva che legittima gli Stati membri ad adottare disposizioni ancor più rigorose di quelle previste dalla direttiva purché si tratti di norme ad applicazione generale (non dunque ad personam) e purché non in conflitto con le disposizioni della direttiva stessa, la quale nulla statuisce in merito a preclusioni informative nel KIID, preoccupandosi invece, come si è notato, di assicurare un’informazione chiara, corretta e non fuorviante.

Del resto, la strada inversa che Consob sembra ora inspiegabilmente percorrere si pone in una direzione opposta a quella di altri suoi omologhi europei. Così, ad esempio, l’Autorité des Marchés Financiers francese (AMF), con la raccomandazione n. 2011-05, consente l’esplicito riferimento agli indicatori di VaR e Sharpe Ratio (ovviamente suggerendone una rappresentazione corretta e non fuorviante: racc. cit. § 1.3.6) e in concreto i KIID francesi si avvalgono di tale facoltà. Dal canto suo la portoghese la Comissão do Mercado deValores Mobiliários, nel regolamento n. 2 del 25 ottobre 2012, emanato in attuazione della Mifid, contempla espressamente l’obbligo di indicare gli scenari probabilistici (art. 13 reg. cit. (3)).

Questo arretramento da parte della nostra autorità di controllo appare del resto confermato anche da due altri fenomeni riscontrabili in prassi.

Per un verso, in fatto di obbligazioni bancarie, societarie e di talune tipologie di derivati, la direttiva sui prospetti (2003/71) ed il relativo regolamento (809/2004) subordinano l’emissione al preventivo benestare di Consob, la quale può subordinare il nulla osta all’inserzione di informazioni ulteriori rispetto a quelle previste dagli standard regolamentari (cfr. artt. 3 e 22 del cit. reg. 809), così come, ove si tratti di prospetti autorizzati da altra autorità comunitaria, l’art. 17 della direttiva 2003/71 legittima la Consob a richiedere tale inserzione all’autorità dello stato di origine, con tanto di potere cautelare interdittivo (art. 23 dir. cit.) sino a soddisfazione della richiesta. Ora, siffatto potere integrativo, che negli anni precedenti risultava regolarmente esercitato proprio attraverso la richiesta di integrazione con gli scenari probabilistici, in tempi più recenti non sembra più essere nelle corde dell’autorità di controllo: lo comprova il fatto che gli scenari non compaiono più nei prospetti di più recente diffusione.

Per altro verso, la previsione contenuta nella più volte menzionata raccomandazione sugli illiquidi non sembra ricevere attuazione in concreto proprio per quel § 1.5 che suggerisce larappresentazione del rischio attraverso il metodo probabilistico in parola. Ma qui, il difetto ha una sua ragione tecnica, data dalla natura stessa del provvedimento che, in quanto raccomandazione, ha una forza cogente più limitata di un regolamento, quantunque il generale obbligo di trasparenza previsto dall’art. 21 t.u.f. dovrebbe ritenersi indubitabilmente violato anche nei casi in cui l’intermediario si astenga dal dar seguito a una precisa raccomandazione in tal senso emanata dall’autorità di controllo.

Peraltro qui la trasformazione della raccomandazione in un precetto specifico da includersi nel Regolamento Intermediari parrebbe la soluzione più rapida ed efficace, senza che ciò possa minimamente implicare alcuna violazione del divieto di goldplating stabilito dalla fonte comunitaria, le indicazioni della raccomandazione altro non essendo che più puntuali e specifiche declinazioni del principio di correttezza, chiarezza, non fuorvianza e ricerca di comprensibilità dell’informazione che la stessa direttiva, lo stesso t.u.f. e lo stesso Regolamento enunciano in modo veramente inequivoco. Così come, quanto meno per gli strumenti quotati o diffusi presso il pubblico, la possibilità di aumentare la qualità informativa riposa nel, sin qui pressoché inutilizzato, art. 95, comma 4° t.u.f. là dove si consegna alla Consob il potere di predeterminare il contenuto tipico dello strumento, pacifico essendo che il contenuto ben possa includere anche uno specifico bagaglio informativo di cui lo strumento debba dotarsi.

Così come fortemente inspiegabile resta la ragione per cui il noto regolamento sui derivati stipulati dagli enti territoriali, in attuazione della legge 112/2008, risulti da più di tre anni pronto, firmato dal Ministro ma non ancora emanato. Quel regolamento contiene, in un allegato tecnico, un chiaro meccanismo per la stima del fair value dei derivati egualmente basato su rappresentazioni di tipo probabilistico. Del pari inspiegabile il motivo per cui il progetto di raccomandazione Consob del 14 luglio 2009, che, in applicazione del cit. reg. 809/2004, propriamente suggeriva l’inserimento dello scenario probabilistico (unitamente all’indicazione del grado di rischio e all’orizzonte temporale d’investimento) per la compilazione delle schede prodotto relativi a prodotti finanziari diversi dalle quote o azioni di OICR e dai prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione, non abbia mai visto la luce.

Il tutto fa a pugni con il già rammentato obbligo di utilizzo degli scenari nei prospettidelle unit eindex linked. Una distonia che, a sua volta, non avrebbe ragion d’essere.

6 – Lassenza di plausibili motivazioni del regresso e lurgenza di un ritorno al modello di accrescimento della qualità informativa

Insomma, il faticoso ma brillante percorso che l’ordinamento aveva intrapreso, spostando il metodo informativo dalla (atecnica) quantità del numero alla (tecnica) quantità previsionale, aumentandone la qualità e con ciò risolvendo, o iniziando a risolvere, quell’annoso problema dell’esoterica impenetrabilità dell’informazione finanziaria, sembra ora progressivamente disperdersi, rassegnandosi ad inesistenti divieti comunitari o affievolendosi in una prassi di desuetudine delle disposizioni esistenti. Per quale ragione?

E’ difficile trovarne una plausibile.

Si potrebbe ritenere che l’ordinamento tema che lo strumento probabilistico possa rivelarsi eccessivamente riduttivo e distogliere l’investitore da un’analisi più approfondita del prodotto, che la trasparenza così intesa possa cioè condurre ad una eccessiva banalizzazione dei concetti tecnici. Ma che dire allora, e peggio, del benchmark (che tuttora compare nella regolamentazione del servizio di gestione: artt. 29 e 38 del Reg. Intermediari) e che potenzialmente reca in sé una capacità illusoria ancor più pronunciata, data la sua natura di metro comparativo spesso fuorviante e dannoso per lo stesso gestore? E che dire dello stesso KIID che, alla sezione terza, contiene un indicatore numerico del rischio generico e che numerosi accademici quantitativi ritengono essere pure sbagliato o erroneamente concepito?

Si potrebbe supporre che il regolatore tema che lo scenario probabilistico possa a sua volta non essere affidabile o, peggio, venir piegato alla bisogna dallo stesso intermediario, ma sarebbe egualmente una preoccupazione infondata. Lo stato della scienza statistica è tale per cui sarebbe sufficiente imporre agli emittenti di adottare le stesse metodologie di stima che essi adottano per il prezzare e stimare il fair value dei loro strumenti, operare un serrato controllo sull’attendibilità di quelle metodologie ed imporre un periodico e costante aggiornamento della stima (come del resto già accade per i prodotti illiquidi, regolati dalla cit. com. Consob n. 9019104/2009, §§ 1.5 e 3.12).

Si potrebbe supporre la volontà del legislatore e del regolatore di non rendere l’obbligo informativo ancor più oneroso e difficile da assolvere. Ma nuovamente l’obiezione non riuscirebbe credibile, atteso che la stima probabilistica è un dato di cui l’intermediario già si avvale e quindi l’onere di trasferire al cliente la relativa informazione diviene veramente trascurabile. Ma quand’anche l’informazione comportasse un accrescimento dell’onere, nondimeno il suo assolvimento potrebbe tradursi in un benefico ritorno per lo stesso sistema dell’intermediazione. Un’informazione veramente trasparente nel senso qui chiarito ridurrebbe sensibilmente le possibilità di contestazione postuma da parte di una clientela che, a torto o a ragione ma secondo le Corti sempre più a ragione, assume, piuttosto di non aver ricevuto, di non aver capito le informazioni che le sono state trasferite. A tacere poi del sano effetto promozionale che deriva da una comunicazione capace di essere veramente rivelatrice.

Nessuna di queste teoriche preoccupazioni può persuadere né alcuna di esse risulta mai essere stata seriamente sollevata nella vigenza del pregresso regime né viene tuttora sollevata dagli emittenti assicurativi per i quali l’obbligo di rappresentazione probabilistica tuttora sussiste.

In realtà è proprio questo il punto d’arrivo cui dovrebbe tornare a tendere il nuovo paradigmadella trasparenza: lo sbilanciamento sin qui registrato fra il crescente numero di informazioni e la scarsa comprensibilità delle medesime dovrebbe scongiurarsi proprio attraverso una diminuzione della quantità di dati (spesso obiettivamente inutili e sovrabbondanti) a vantaggio di un miglioramento della qualità dei medesimi, sia in termini di leggibilità sia in termini di rivelazione dei meccanismi insiti nell’oggetto dell’informazione. E cosa, meglio di una rappresentazione di probabilità, potrebbe utilmente fungere allo scopo?

Al contrario, l’informazione realmente trasparente può svolgere una funzione profilattica che trascende la singola posizione o il singolo rapporto. Se, in relazione ai titoli che hanno, in vario, variopinto e spesso incomprensibile modo, cartolarizzato i subprime, l’informazione avesse posto l’accento sul fatto che la sicurezza di quei titoli dipendeva essenzialmente dalla tenuta di un mercato immobiliare che, in caso di caduta, avrebbe trascinato con sé anche coloro che in quei titoli avevano investito ed avesse offerto una realistica rappresentazione delle probabilità dio avveramento di un simile rischio; se ciò fosse accaduto, sicuramente quei titoli avrebbero avuto minor successo, ma forse la catastrofe, almeno in parte, si sarebbe evitata. La trasparenza, la vera trasparenza, il lasciare che la luce penetri il corpo del prodotto rendendolo diafano da opaco, è un qualcosa che paga: paga un profitto forse minore nell’immediato, ma infinitamente superiore al prezzo che potrebbe dover pagare, come ora sta pagando, un sistema (ri)avviato all’intrasparenza.

L’ordinamento ripercorra i suoi passi. Torni a mirare ad un’autentica trasparenza, non si accontenti della traslucenza.

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Il primo maggio nasce per ricordare le battaglie dell’Ottocento per la giornata lavorativa di otto ore, le rivendicazioni sindacali che ancora oggi caratterizzano questa giornata la associano soprattutto ai lavoratori dipendenti, ma in realtà è la festa di tutti i lavoratori, anche quelli autonomi.

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