Querele, liti e cause quando la smania di denunciare gli altri è stalking giudiziario

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Querele fra fratelli per accaparrarsi eredità inesistenti. Liti temerarie nate per scoraggiare i creditori, e cause condominiali per ottenere rimborsi da 1,60 euro. Tutte azioni legali promosse con un unico scopo: dare fastidio, arrecare un danno. È lo stalking giudiziario, vizio del sistema giuridico che nasce soprattutto in ambito civile e sempre più spesso finisce nelle aule penali. Un mostro che negli ultimi anni è cresciuto a dismisura. E ha contribuito a rallentare la macchina della giustizia, facendo crescere fino alla cifra record di 387 milioni di euro il debito dello Stato nei confronti dei cittadini che attendono rimborsi in quanto “vittime” di processi di durata irragionevole.

L’ultimo caso si è avuto a Pavia, con il rinvio a giudizio per stalking di un uomo che il prossimo febbraio andrà a processo per avere vessato l’ex moglie con continue denunce prive di fondamento. «All’amministrazione della giustizia, il proliferare di cause inutili e nocive costa milioni di euro l’anno — dice Giuseppe Buffone, giudice della nona sezione civile del Tribunale di Milano, che a Varese firmò la prima sentenza per “comportamento giudiziario stalkizzante” — le azioni legali promosse senza ragioni sono circa il 20 per cento del totale e rallentano tutte le altre». Buffone fa un paragone: «Lo stalker giudiziario è come un uomo sano che ogni mattina si presenta al pronto soccorso, rubando il posto in fila a chi sta davvero male». La sentenza di Varese fu fatta nel 2009. Da allora, diversi giudici penali hanno riconoscono come stalking il ricorso ripetuto, inutile e nocivo agli strumenti legali. Pronunce in questo senso si sono avute a Caserta e Parma. Nel caso di Pavia, l’imputato è accusato di «alterare le abitudini di vita» dell’ex moglie «a mezzo delle continue convocazioni alle autorità di polizia per denunce infondate». L’avvocato milanese Paola Farinoni, legale della donna, spiega: «Continuando a denunciare la moglie, anche per ritardi di pochi minuti nella consegna del figlio, l’uomo ha usato la querela come strumento per perseguitare la mia assistita». Un caso tutt’altro che isolato. Il presidente dell’associazione nazionale degli avvocati matrimonialisti, Gian Ettore Gassani, conferma: «Sempre più spesso dobbiamo contenere le richieste di clienti che vogliono attivare azioni legali inutili, per indebolire o danneggiare la controparte da un punto di vista economico ed emotivo. Il fenomeno sta assumendo dimensioni inquietanti». Proprio nell’ottica di ridurre il numero delle cause senza fondamento, il parlamento ha approvato una modifica dell’articolo 91 del codice di procedura civile (legge 162 del 2014), entrata in vigore lo scorso 11 novembre. La nuova norma riduce i casi in cui sia possibile compensare le spese fra le parti, accollando i costi delle cause inutili a chi le ha proposte. La necessità nasce dalla progressiva crescita del debito dello Stato nei confronti di chi deve essere rimborsato per avere subito processi troppo lunghi: nel 2006 era di 4 milioni di euro, nel 2013 si è arrivati a 387 milioni, di cui solo 50 già stanziati dal ministero della Giustizia. Buffone non ha dubbi: «I numeri parlano chiaro. Basterebbe limitare o scoraggiare le cause “senza diritti da tutelare”, ad esempio quelle promosse in malafede, e i processi di durata irragionevole si avvierebbero praticamente sulla via dell’estinzione».
L’ordinamento non prevede (come accade in Gran Bretagna) che il giudice possa decidere de plano , senza istruttoria, di non aprire un fascicolo in caso ritenga infondata un’azione legale. Così, in tutta Italia i magistrati cercano di scoraggiare gli stalker giudiziari e i “promotori seriali” di cause civili, usando gli strumenti a loro disposizione. Di fronte a cause promosse per pochi centesimi di euro e a liti infondate, i giudici della XIII sezione civile del tribunale di Milano — che fra le competenze ha le liti condominiali — sempre più spesso applicano l’articolo 96 del codice di procedura. «Se una parte ha agito o resistito in giudizio con palese malafede o colpa grave, può essere condannata a un risarcimento del danno a discrezione del giudice — spiega il presidente della sezione, Marco Manunta — è la più efficace arma che abbiamo per evitare che le liti inutili rallentino il lavoro sulle questioni serie».
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